venerdì 19 dicembre 2008
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Violenza privata» e « intimi­dazione » , « interruzione di servizio di pubblica necessità » . Le accuse che in queste ore vengono mosse al ministro del Welfare Mau­rizio Sacconi, trasformate in altret­tante denunce al Tribunale di Roma dai Radicali e da un’associazione di consumatori (!), non solo appaiono manifestamente infondate, ma danno la misura di come la realtà delle cose venga ribaltata a servizio di un’ideologia distruttiva. L’atto di indirizzo con il quale il mi­nistro ha ricordato come nelle strut­ture sanitarie pubbliche ( e private convenzionate) debbano essere ga­rantite – oggi e domani – la nutri­zione e l’idratazione dei pazienti, disabili gravissimi compresi, risul­ta infatti pienamente legittimo. Af­ferente ai poteri – appunto di indi­rizzo – dell’autorità politica nazio­nale. Persino « scontato » , come ha notato ieri anche qualche espo­nente dell’opposizione, in un Pae­se che nella sua Costituzione ga­rantisce e tutela anzitutto il diritto alla salute come interesse collettivo e non solo personale. Sul piano giu­ridico, non regge quindi l’argomen­tazione che le Regioni avrebbero competenza esclusiva sulla sanità. E tanto meno si può invocare – a sproposito – lo Statuto speciale del Friuli Venezia Giulia, quasi che quel­la regione, o altre, potessero sot­trarsi a un’interpretazione naziona­le di come le strutture pubbliche debbano garantire la tutela di dirit­ti costituzionali primari, quali sono appunto quelli alla vita e alla salu­te. Per Eluana e per tutti i cittadini italiani. Invocare la specificità del proprio statuto per cause indifen­dibili o, peggio, per piccole cama­rille politiche, con un atteggiamen­to quantomeno pilatesco, appare davvero un pessimo servizio alla propria gente e alla Politica. E qui occorre forse allargare lo sguardo per chiedersi se in Italia sia ancora possibile esercitare scelte politiche senza finire ostaggio del­le aule giudiziarie. Nel senso di far valere – così come ha ritenuto op­portuno di fare il ministro Sacconi – una visione politica. Di parte, cer­to, com’è caratteristica di una de­mocrazia basata sui partiti. Ma di una parte uscita maggioritaria dal­le elezioni e, fino a prova contraria, capace di interpretare ancora il sen­tire profondo dei cittadini italiani. Si può contestare, argomentando, il contenuto delle scelte, ma non si può contestare a un ministro di a­ver agito politicamente, addebitan­dogli con ciò « una violenza priva­ta » . E sfiora addirittura il ridicolo trasformare la risposta del ministro alla domanda di un giornalista – « Comportamenti difformi da quei principi determinerebbero ina­dempienza, con le conseguenze probabilmente immaginabili » – in un atto intimidatorio. Sarebbe come denunciare per minacce un vigile che dicesse a un automobilista: ' at­tento, se passi col rosso, rischi una multa'! L’inconsistenza delle accuse, dun­que, è tale da far pensare che si trat­ti dell’ennesima, istrionica, trovata mediatica dei Radicali. Questa sì, però, dal vago sapore intimidatorio. Perché abbandona il terreno politi­co, proprio del confronto, per adire invece i tribunali. Neppure ricor­rendo alla giustizia amministrativa, sede naturale per contestare il me­rito di un provvedimento dell’auto­rità pubblica, ma rivolgendosi al­l’ambito penale. Con l’unico scopo di tentare di delegittimare l’onora­bilità di un ministro della Repub­blica, che ha avuto il coraggio di e­manare un atto di indirizzo politi­co trasparente, di elevato valore e­tico.
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