giovedì 28 agosto 2014
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La follia viaggia ben accompagnata. Nella tragedia accaduta ieri a Lake Havasu City, in Arizona, le follie sono almeno quattro. La follia dei genitori della piccola Jane (nome di fantasia), di 9 anni appena, che la portano con loro al poligono di tiro e decidono che è bello, divertente, istruttivo farle provare una mitraglietta Uzi. La follia (e la dabbenaggine) del povero istruttore che accetta di addestrare Jane, la quale spara, ma il rinculo dell’arma fa ruotare il mitra verso la testa dell’uomo: il colpo successivo lo raggiunge e lo uccide. La follia di una cultura delle armi che genera incidenti, lutti e rovina.  C’è poi una quarta follia che schizza dall’Arizona e contagia e lorda il mondo intero. La follia che corre sul web tramite i social network. La scena del poligono di tiro è stata filmata. E il film di Jane che spara e del suo istruttore che muore si disperde come mille coriandoli al vento, impossibili da riafferrare. Perché? Perché sentire il bisogno di esibire l’orrore?  Perché mostrare incidenti mortali, teste mozzate, orrori assortiti? Per intenerire i cuori meno sensibili o per indurire anche quelli più teneri? Che cosa aggiunge l’esibizione dell’orrore alla verità?  Verrebbe da chiamare tutto ciò con un termine brutale: pornografia (anche se per fortuna il video è stato fermato un attimo prima dell’uccisione). C’è la pornografia in senso stretto, quella che esibisce i corpi che si accoppiano. E la pornografia in senso lato, che esibisce i sentimenti più personali e ne fa compravendita, di cui la tv è maestra: pianti, lacrime, abbandoni e riconciliazioni. I nostri momenti più intimi comprati e venduti, come se fosse l’unico modo per farli esistere davvero.  Ma più malefica e furbastra è l’esibizione dell’orrore. Ci fanno credere che evitarla, distogliendo lo sguardo, sia un atto di insensibilità. «Guarda qua e convidivi!» è il verbo del web. Vogliono farci credere che la scelta del pudore sia censura. In realtà viene solleticato il mostro che dorme dentro di noi e che è attratto dall’orrore.  Lo stesso mostriciattolo che ci spinge a rallentare in autostrada quando incrociamo un incidente stradale, e che ci paralizza davanti al sangue: agghiacciati dall’orrore, impossibilitati dal distogliere lo sguardo. Tutto ciò non ci rende migliori, semmai peggiori, non ci sensibilizza ma ci anestetizza. E allora a che cosa serve?  Non serve a nulla, se non a far aumentare i “contatti”, i “mi piace”, ringalluzzendo l’ego di chi l’orrore lo sbatte in rete. Sono così sensibili, gli spacciatori di orrore, da non pensare alle vere vittime. A Jane. Tra qualche anno è inevitabile che il ricordo di quel giorno al poligono riaffiorerà. Ed è possibile, anzi probabile, che rivedrà se stessa “ammazzare”, senza colpa alcuna, un uomo. Quel giorno, la pornografia spacciata per verità avrà compiuto il suo ultimo, estremo delitto. Nel frattempo, i suoi genitori si saranno forse chiesti se non sarebbe stato meglio mettere in mano a Jane una bambola o un orsacchiotto, affinché lei riversasse su di loro il proprio desiderio di cura, e imparasse ad amare. Altro che sparare.
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