martedì 27 aprile 2010
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Caro direttore,la confessione – cioè la riconciliazione – non è mai stata un sacramento facile. Chiunque abbia qualche dimestichezza con la storia della Chiesa può confermarlo, sia per il passato remoto, sia anche per l’età contemporanea, tant’è che non più tardi del 1983 Giovanni Paolo II decise di dedicarle una assemblea del Sinodo. Dal dibattito di quell’assise nacque poi l’esortazione apostolica Reconciliatio et Paenitentia. Un documento che, pur riconoscendo un «progressivo attenuarsi del senso del peccato», ribadiva, però, nella sostanza la dottrina tradizionale della Chiesa riassunta nella costituzione conciliare Gaudium et Spes. Le difficoltà incontrate dalla pratica di questo sacramento nei secoli sono note e molti autori se ne sono occupati, senza occultare le evidenze storiche, ma – come ad esempio ha fatto Jean Delumeau – interpretandole correttamente nei contesti culturali delle diverse epoche. La questione della riconciliazione e, dunque, del peccato, infatti, tocca il tema della libertà dell’uomo. «Una verità – si legge nel documento del 1983 – che non si può ignorare», anche se potrebbe risultare più comodo farlo. Un argomento, quello della libertà morale dell’uomo, che del resto è stata, ed è, la cifra essenziale della stessa modernità. Tutto ciò premesso (e, forse, proprio per questo), si capisce che in un tempo di forti cambiamenti comportamentali, come sono gli attuali, il sacramento della riconciliazione finisca per essere il discrimine tra la forza liberante della fede e una più pessimistica concezione della libertà dell’uomo. Problemi che riguardano i credenti (più o meno peccatori) e che però accettano questa funzione mediatrice tra cielo e terra della Chiesa, ben consapevoli che ogni segno esteriore della Chiesa (in particolare i sacramenti) scontano il rischio dell’inattualità e della facile offesa. Ed è quanto è capitato nei giorni scorsi con l’inchiesta di una giornalista de "l’Unità", la quale fingendo di voler confessare la propria omosessualità a numerosi sacerdoti, ha pubblicato le loro risposte, sottolineandone l’approssimazione e l’inadeguatezza. Una operazione di evidente sottocultura e di grave scorrettezza morale prima ancora che professionale, tanto più perché realizzata approfittando della buona fede dei confessori poi messi alla berlina. Un episodio che certamente non fa onore alla testata fondata da Antonio Gramsci, la cui figura culturale, morale e politica non merita questi tristi esiti giornalistici. Ma – grazie al blog del giornale – è anche un episodio rivelatore della sua stessa debolezza. Alcuni lettori, infatti, hanno contestato che: «andare in un confessionale e prendersi gioco di un sacramento non è accettabile». Il che apre la strada ad un’ultima domanda: se è vero che "l’Unità" fa riferimento al Pd, in quale considerazione (pur considerando l’autonomia giornalistica) donne e uomini del Pd, tengono i cattolici, se non si curano di offenderli e di banalizzare ciò in cui i cattolici credono (crediamo)?

Pio Cerocchi

Non ti nascondo, caro Pio, che il lungo testo a cui tu fai riferimento mi ha dato la sensazione di essere un copione predisposto e riempito ad arte, nel senso dell’artificio. Quell’articolo mi è sembrato, insomma, più una mediocre sceneggiatura che un reportage. E certamente non è stato uno scoop, ma un sacrilegio. Naturalmente è tale per chi crede. Ma chi non crede e lo commissiona e lo compie e lo pubblicizza e non si pone il problema di offendere e ferire l’altro, il credente, è un altezzoso e un violento. È tempo di dirlo chiaro è tondo: queste aggressioni al sentire dei cattolici, alla nostra fede, sono episodi di inusitata alterigia e di pura violenza. Con il «mai facile», come tu dici, sacramento della riconciliazione – con la confessione – non si gioca e non si specula. Ci sono sacerdoti che hanno patito e sono stati perseguitati e, addirittura, uccisi per non aver accettato di violare il segreto che si costruisce in questo «atto» che è umano e divino. Giocare e speculare anche su un sacramento – per poter confezionare un titolo più o meno a effetto – non è intelligenza, è una desolante prepotenza, che giudica chi la esibisce. Mi dispiace per la cultura politica che l’Unità rappresenta.
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