Localismo, malattia dei nostri atenei
venerdì 27 luglio 2018

Il vizio del localismo continua a essere una delle peggiori iatture nel reclutamento dei ricercatori e dei docenti universitari. Quando viene bandito il concorso per un posto, in un ambiente ristretto come quello accademico (in cui tutti o quasi, più o meno, si conoscono) è molto facile pronosticare chi sarà il vincitore o la vincitrice. Perché c’è sempre un candidato locale (cioè che abbia avuto o abbia in corso rapporti di lavoro o di collaborazione con l’ateneo che attiva la procedura), per il quale quel posto è stato ritagliato. Ciò avviene da molto tempo, ma oggi il problema è ancora più grave: perché a fronte del netto taglio delle risorse allocate all’Università negli ultimi anni, persistendo tale atteggiamento localistico, accade che tanti studiosi qualificati rimangano disoccupati. Magari a vantaggio di vincitori meno titolati. Intendiamoci: non è detto che il candidato locale sia necessariamente peggiore di quelli esterni. Il problema, però, è che le commissioni il più delle volte sembrano non porsi neanche la questione; la loro attenzione è tutta volta non tanto a selezionare il candidato migliore, ma a mettere in atto, nei verbali e nei giudizi, quegli artifici formali e retorici tesi a blindare l’esito a vantaggio del vincitore da loro desiderato. Eppure all’art. 24, comma 2, la legge 240/2010, che regola il reclutamento universitario, leggiamo che i ricercatori «sono scelti mediante procedure pubbliche di selezione disciplinate dalle università [...] nel rispetto dei principi enunciati dalla Carta europea dei ricercatori».

Quest’ultima è una raccomandazione della Commissione europea, datata 11 marzo 2005, in cui tra l’altro si trova scritto che «eventuali esperienze di mobilità, ossia un soggiorno in un Paese o Regione diversi o in un altro istituto di ricerca (pubblico o privato), o un cambiamento di disciplina o settore, sia nell’ambito della formazione iniziale che in una fase ulteriore della carriera [...] dovrebbero essere considerati contributi preziosi allo sviluppo professionale del ricercatore». È evidente che la mobilità dei ricercatori favorisce la loro crescita scientifica, arricchisce i vari atenei di esperienze diverse e impedisce che si possano creare rendite di posizione o barriere all’entrata. Il caso di un giovane che si laurei in una università, consegua il dottorato in quello stesso ateneo e nel medesimo ateneo diventi ricercatore, magari venendo preferito a candidati più qualificati che invece hanno lavorato in sedi e in Paesi diversi, contraddice con tutta evidenza questa raccomandazione. L’attuale sistema, di fatto, disincentiva fortemente la mobilità. Il tema riguarda un po’ tutte le tipologie di posti: da quelli di professore ordinario a quelli di associato, da quelli di ricercatore a quelli di 'professore a contratto'. In quest’ultimo caso (si tratta del gradino più basso della carriera accademica: l’attribuzione di un corso retribuito per le ore di lezione svolte), la preferenza per i candidati locali è la regola, con pochissime eccezioni. Per questo tipo di concorsi tutto avviene alla chetichella: vengono pubblicati i nomi dei vincitori, ma non gli atti e i giudizi della commissione (per poterli leggere, bisogna produrre apposita istanza). Anche perché ci si immagina che a fronte di un contratto per poche centinaia di euro, nessun candidato escluso farà mai ricorso al Tar, dovendo in quel caso investire in spese legali qualche migliaio di euro: il gioco, come è chiaro, non vale la candela. Solo alcune università (come la Statale di Milano e l’Alma Mater di Bologna) prevedono nei loro regolamenti la possibilità di proporre ricorso al rettore, il quale è tenuto a nominare una commissione che deve pronunciarsi entro trenta giorni.

Chi è lontano dal mondo accademico potrà pensare che si tratti di esagerazioni e di generalizzazioni. Anche sulla base di tante segnalazioni fatte pubblicamente negli ultimi mesi da organizzazioni meritorie come l’Oicu (Osservatorio indipendente sui concorsi universitari), possiamo assicurare che non è così. Che fare, dunque? Non esistono ricette semplici a un male vasto e radicato come quello del localismo. Ciò che deve cambiare è la forma mentis di chi è chiamato alla grande responsabilità di selezionare ricercatori e professori in uno scenario internazionale sempre più complesso e competitivo. L’interesse pubblico dovrebbe prevalere su ogni altra considerazione. È una questione morale e civile. L’etica impone di non falsificare la verità. E come cittadini dobbiamo esigere che la Pubblica amministrazione, finanziata con i nostri denari, li gestisca nel modo più trasparente e vantaggioso per la collettività, non sulla base di interessi personali, privati, familistici, clientelari e localistici.

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