giovedì 6 febbraio 2014
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Nella foto si vede una distesa immensa di bianco, e in mezzo, dritti in su, il collo e la testa di un capriolo: è sepolto nella neve, non riesce più a muoversi, e mi guarda fisso. Pare che chieda: «Mi conosci?». Sì, certamente lo conosco, i caprioli su questi monti sono poche centinaia, ormai li ho incontrati tutti. Altra foto: quartieri della mia città, Padova, e della città vicina, Vicenza, e delle province, immersi nell’acqua, fino alle finestre del primo piano, e gli inquilini in barca, che s’allontanano remando. Fa male al cervello, prima che al cuore e ai nervi, vedere le terre, i paesi, le città dove sei nato e cresciuto, che conosci metro per metro, sepolte sotto l’acqua. Il Veneto delle campagne è alluvionato. E vedere il Veneto delle montagne sepolto sotto metri di neve: ci sono case che devono reggerne perfino 4 metri, gli uomini salgono per le scale fino ai tetti e con i rastrelli spazzano giù il manto candido e pesante. Per evitare il crollo dei tetti. Noi viaggiamo molto, fingiamo di essere cittadini del mondo, poi scopriamo che in realtà non ci stacchiamo mai da dove siamo nati: cresciamo qui, facciamo gli studi qui, anche l’università, ormai ogni cittadina per quanto piccola pretende la sua sede universitaria, facciamo il servizio militare (quando c’era) qui, in base al reclutamento regionale, e insomma viviamo tutta la vita qui. Se nevica interminabilmente nel paese vicino, è come se ci nevicasse in casa. Idem per l’alluvione: vediamo piazzette di paesi sott’acqua, bar chiusi, scuole chiuse, e ci viene in mente che in quei bar abbiamo amici, in quelle scuole abbiamo incontrato gli studenti. È un disastro. Il governatore dice: «Proclamo lo stato di calamità», significa che lo Stato deve darci una mano. È giusto, è bello che avvenga, tutti aiutiamo lo Stato e lo Stato deve restituirci l’aiuto, quando ne abbiamo bisogno. Qui però, adesso come nel 2010 in analoga situazione, abbiamo un problema: c’è una fetta di gente che non ama lo Stato, predica contro lo Stato, lo maledice. C’è gente cresciuta nel mito dell’autonomia, dell’indipendenza, della separazione, a volte ha minacciato perfino di saltare di là, nello Stato confinante, contro il quale abbiamo combattuto e vinto una guerra mondiale, che ci ha riempito i cimiteri. Per questa fetta di popolazione Stato significa gli altri. È nelle disgrazie, come questa, che deve significare "i nostri". In queste occasioni la gente scopre che lo Stato serve. A patto, naturalmente, che batta un colpo. La nevicata interminabile significa caduta di alberi, crollo delle linee elettriche, buio, freddo, valanghe, frane, slavine. È in queste occasioni che ci vuole la fratellanza. Era un errore insultare lo Stato, minacciare i connazionali, predicare la separazione. E sarebbe un errore per lo Stato e i fratelli nazionali non farsi sentire adesso. C’è un romanzo non bello (lo dico subito; comunque, di un premio Nobel), Il ponte sulla Drina di Ivo Andric, esattamente su questo tema: è ambientato in una città tra la Bosnia e la Serbia, dove cristiani ortodossi, turchi ed ebrei non si sopportano ma si odiano e si boicottano. Il ponte fa da contatto, e quando l’alluvione minaccia tutti, tutti si danno da fare come forsennati. È l’unione che fa la forza.
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