domenica 13 giugno 2010
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Caro direttore,un bambino di 7 anni è stato ucciso in Afghanistan. Impiccato. Fermiamoci, vi prego, fermiamoci. Che umanità è questa? Cosa stiamo diventando? Pensiamoci. Nessun moralismo, nessun attacco pacifista. Una giovane amica mi dice che dobbiamo continuare a vivere per testimoniare. Ma che cosa? Che un essere umano, un adulto, ha preso un bambino, alto poco più di un metro per 20 chili forse, gli ha legato una corda attorno al collo e lo ha impiccato? Ucciso. Morto. Cosa stiamo diventando, noi qui felici abitanti del mondo civile? Dove sono finiti tutti i professori, i politici, i giornalisti? I famosi intellettuali, i sociologi, i movimentisti, i tuttologi? Forse al mare, in vacanza. Forse mi sono addormentata e ho perso un giorno. Martedì per radio, mercoledì sui giornali, ieri nulla, oggi iniziano i Mondiali, domani è il fine settimana. Ho aspettato, ho creduto, ho pianto. Ma non è successo nulla. Qualcuno si è mosso? Che povero mondo feroce. Dov’è finita la ragione? Dov’è finito l’uomo? Hanno impiccato un bambino... Vivendo in un mondo ormai incapace di trattenere anche solo il più piccolo gemito, mi illudevo di venire travolta da un’incontinenza di forum, dibattiti e chat. Mi aspettavo appelli, microblog e discussioni. E invece quasi nulla. Poco. Troppo poco. Un tragico quasi silenzio colmo di niente. Andiamo sulla Luna, su Marte, negli abissi del mare e poi, davanti a un bambino, che potrebbe essere nostro figlio (Mio figlio. Tuo figlio), che viene impiccato non siamo capaci di piangere. Non siamo capaci di fermarci e di pensare. Che tristezza infinita. Siamo solo uomini ingranaggi di un moto perpetuo inarrestabile? Un mondo migliore è possibile, senza eroismi, senza fanatismo e senza falso buonismo. Sta solo a noi volerlo. Ma sembra che abbiamo scelto di vivere in una solitudine troppo rumorosa, come scriveva Hrabal. Chissà come si chiamava quel bambino. Sarebbe bello saperlo. Sarebbe bello ricordarlo.

Elisabetta Ponzone

Ci sono notizie che non diventano mai compiutamente tali, cara amica. Perché le loro fonti sono deboli o intermittenti o incerte. Oppure semplicemente perché sono notizie "scomode". E ci sono sofferenze umane che non esplodono mai del tutto. Perché proviamo a soffocarle, persino dentro noi stessi. Oppure perché chiedono e quasi impongono di essere vissute con delicatezza. O ancora perché vengono negate da chi non sa e non vuole riconoscerne l’esistenza, la potenza, la scorrettezza. La fragile e sconvolgente notizia che lei affronta con dolore – e che su Avvenire abbiamo pubblicato anche in prima pagina, dopo tutte le verifiche possibili e con non placata angoscia – è quella dell’uccisione di un bimbo afghano di sette anni accusato dai taleban, a quanto è tormentosamente trapelato, di aver giocato con malizia – addirittura da «spia» – nella guerra dei grandi. È una notizia che fa balenare la tragedia senza luce di un piccolo Kim dei giorni nostri, protagonista di una storia che non conosceremo mai sino in fondo, portatore di un nome che non ci è dato di sapere. Un’incertezza tragica, accompagnata dall’immane pesantezza di un esile corpo senza vita. Ha ragione lei, gentile signora: comunque sia, un bambino ci è stato tolto. A sette anni, appena oltre la soglia che – a me piccino, in quest’altra parte del mondo diversissima e umanamente uguale – veniva indicata con un sorriso come l’«età della ragione». E attorno a questa morte di cui ragione non riusciamo a darci c’è effettivamente stato – incrinato da pochissime voci – un «quasi silenzio colmo di niente». Lo stesso «quasi silenzio» che ancora e sempre accompagna – in ogni giorno del nostro mondo – lo sterminio per fame e per sete, per pigrizia e per abbandono, per profitto, per egoismo, per debolezza e per paura di una immensa folla di piccoli e di deboli senza nome. Vivi e messi a morte, già nel grembo materno o in giorni e luoghi depredati di serenità e di futuro. Eppure ogni morte pesa, ogni morte bambina è uno scandalo gigantesco. Grazie, cara Elisabetta, per non aver trattenuto il suo «gemito» e per averlo fatto arrivare sin qui. Non sappiamo il nome del bimbo ucciso in Afghanistan, ma abbiamo conosciuto il pianto della madre.
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