L'Italia dove la Chiesa mostra e dimostra che le «diversità» fanno comunità
martedì 23 ottobre 2018

Caro direttore,
nella diocesi di Arezzo-Cortona-Sansepolcro l’accoglienza dei rifugiati è stata molto intensa negli ultimi dieci anni, questo fenomeno che ha riguardato molte associazioni del territorio, ha visto la Caritas diocesana e le rispettive Caritas delle Unità pastorali molto impegnate nel venire incontro ai disagi di chi chiedeva e chiede aiuto. Oltre all’accoglienza, è bello vedere che anche qui non ci sono stati fino a oggi episodi di razzismo plateali. In alcuni casi, laddove i bambini sono cresciuti qui, è interessante vedere già coppie di fidanzatini multirazziali che nel parco dietro la Cattedrale parlano e passeggiano insieme.
Sorge spontaneo domandarci perché nella nostra realtà la situazione non sia affatto tesa, perché i giovani non siano tendenzialmente razzisti e perché non si viva un rifiuto spontaneo dell’emigrato. La risposta può avere molteplici risvolti. C’è il peso della cultura toscana, che è abbastanza aperta. C’è l’impegno delle istituzioni, che hanno fatto – come del resto in altre parti d’Italia – il loro lavoro. Ma ciò che ha contribuito cambiare notevolmente la mentalità è stato l’intervento della Chiesa locale, che ha favorito la presenza di sacerdoti provenienti da altre parti del mondo e la scelta oculata di molte congregazioni femminili che hanno scelto di far venire le religiose provenienti dall’Asia e dall’Africa a svolgere qui alcuni anni di apostolato.

Così la nostra gente ha compreso che dai preti non italiani, e spesso con un colore della pelle diverso, possiamo essere curati spiritualmente e accompagnati oltre che nella liturgia domenicale anche nelle fasi importanti della vita, che le suore non italiane animano le liturgie, curano i nonni nelle case di riposo e seguono la formazione dei giovani negli oratori e nelle comunità. Uomini e donne provenienti da altre terre ci fanno vedere che hanno preso a cuore il futuro cristiano e umano di questo nostro popolo.
Si tratta di un fenomeno che è cresciuto negli ultimi anni e la Chiesa aretina non ha mai avuto reticenze nell’affidare la cura pastorale di molte comunità anche a quelli che comunemente sono chiamati «extracomunitari»: una parola antievangelica, perché in Chiesa non serve il passaporto.

La cosa più entusiasmante è non sentire mai da parte del popolo lamentele quando in una parrocchia arriva un prete non italiano, “L’importante è che sia prete” afferma la nostra gente! Ed è bello sentire che si dicano “le suore” senza accennare mai al colore della loro pelle, sono «le suore» e basta. Di fatto non senza qualche difficoltà anche così si sta realizzando il sogno di papa Francesco. E credo che la Chiesa, non solo aretina, debba valutare seriamente l’importanza della collaborazione, non soltanto nazionale, ma anche internazionale tra le diocesi e, quindi, favorire il più possibile l’inserimento di presbiteri non italiani a lavorare insieme al clero autoctono.

L’esperienza di Arezzo dimostra che la fraternità e la collaborazione con persone che provengono da parti del mondo diverse sono un valore aggiunto, e aiutano anche la popolazione locale a capire che gli “altri” non ci sono utili solo come mano d’opera, ma anche come testimoni di un Vangelo che ci aiuta a camminare insieme per costruire un mondo migliore.
Fabrizio Vantini, Vicario generale della Diocesi di Arezzo-Cortona-Sansepolcro

«Gli "altri" non ci sono utili solo come mano d’opera, ma anche come testimoni del Vangelo». Che bella testimonianza, caro don Fabrizio. Accanto alle sue parole che dicono dell’esperienza nella nostra Chiesa cattolica potrei mettere dati su dati a cominciare da quelli che attestano come la variegata e multireligiosa popolazione residente di origine straniera professi in netta maggioranza la fede cristiana, pur con praticamente tutte le screziature delle differenti confessioni d’Oriente e d’Occidente. Una realtà dimenticata da quanti confondono pelle e colore della pelle. Un errore e una tentazione che personalmente non ho mai avuto, anche per la fortuna di essere originario da una piccola città-mondo come Assisi, e dunque concittadino di Francesco e Chiara due "stranieri" che hanno saputo e sanno parlare di Cristo in tutte le lingue del mondo e di "toccare" con la loro adesione alla vita buona del Vangelo tutte le culture esistenti. Ma sin da bambino ho una consapevolezza che precede anche quella "francescana". Il santo vescovo Rufino era un immigrato dall’Asia Minore, l’odierna Turchia. E quell’uomo dalla pelle ambrata, nel III secolo della nostra era, ha seminato - testimoniandola sino al martirio - la fede cristiana nello spicchio della mia terra umbra posto sotto al Subasio. Mi è stato insegnato e non l’ho più dimenticato. Oggi ai nostri preti con la pelle di un altro colore qui in Italia non è chiesto il martirio, ma di prendersi cura delle nostre anime e, come lei scrive, di accompagnare da padri e da fratelli la nostra vita. Lo stesso compito è assolto con gioia evangelica da tanti religiosi e religiose e da fedeli semplici che ci comunicano (e, spesso, ci restituiscono il senso) della serena e forte sequela Christi. Che tutto questo aiuti tutti a riflettere e ad avere occhi più rispettosi e profondi sull’altro. Grazie, don Fabrizio, grazie.

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