Le mie visite-benedizione casa per casa. L'accoglienza e la speranza
mercoledì 28 marzo 2018

Caro Avvenire,
ho visto che avete dedicato una pagina alla visita-benedizione alle famiglie che in questo tempo di Quaresima- Pasqua molti sacerdoti compiono nelle loro parrocchie. Lo faccio anch’io da quando, nel 1987, sono diventato parroco. La parrocchia aveva poco più di 300 abitanti e in una settimana passavo in tutte le case. Però ho ugualmente dovuto farmi coraggio, perché per natura sono piuttosto timido. Cinque anni dopo, trasferito in una parrocchia di 3.800 abitanti, ho continuato anche lì nella mia visita alle famiglie: iniziavo in febbraio e concludevo a maggio. La fatica rimaneva, ma cresceva anche la percezione che questo mi faceva bene: cresceva in me il senso della realtà e della sua accoglienza. Passano otto anni e mi sono ritrovato parroco in una cittadina di 11.000 abitanti. La forza d’inerzia e una convinzione più radicata mi portano a continuare in questa pratica di passare di casa in casa, solo che devo iniziare per tempo (subito dopo l’Epifania) per concludere a settembre inoltrato.

E così ho fatto per 16 anni, ogni anno. Dal settembre 2016 mi trovo in una parrocchia di 13.000 abitanti e l’età avanza: 73 anni nel luglio prossimo. Lo scorso anno ero incerto se continuare o smettere. Ho deciso di proseguire, iniziando il 2 gennaio e proseguendo fino a ottobre. Ogni giorno caricavo nello zainetto 30 libretti da consegnare alle famiglie e una diecina di immagini della Madonna da lasciare nei negozi e nelle fabbriche, dove pure sono entrato. Così al rientro in canonica mi risultava facile fare un rapido conteggio. Conclusione: a fine 2017 sono stati 3.945 i locali (negozi e fabbriche inclusi) dove sono entrato per la benedizione. Quest’anno il numero salirà, visto che ogni giorno visito nuove famiglie.

Su un’agendina mi scrivo le case in cui non trovo nessuno e poi ripasso, in orari diversi, altre 3-4 volte. L’accoglienza è semplicemente stupenda. A tal punto che, appena ho un’ora libera (anche al mattino), esco per la visita. C’è anche chi non mi accoglie, ma da parte mia ho imparato ad accogliere tutti, magari lanciando anche solo un veloce saluto attraverso il citofono. Nelle case poi trovi di tutto: ordine, disordine, famiglie numerose (quasi nessuna), gente sola (in gran parte), bambini che giocano, bambini che piangono, genitori sereni, genitori preoccupati, gente stanca per il lavoro o stanca e sfiduciata perché non trova lavoro, giovani che ti parlano dei loro studi e dei loro progetti o giovani che, appena entri, devono subito andar via, anziani incupiti e anziani contenti perché i nipotini vanno a trovarli, cani (tanti) che abbaiano dall’inizio alla fine, televisioni accese (quasi tutte) e televisioni spente (quasi nessuna), gente che ti accoglie con tanto calore e gente che ti fa entrare senza sapere il perché; c’è chi prega convinto al momento della benedizione e chi non distoglie lo sguardo dalla tv o non smette di mangiare...

E impari a voler bene a tutti, proprio a tutti. E a voler bene anche alla fede imperfetta di chi accetta la benedizione «perché – ti dice – male non fa» e spera che porti fortuna, «e ci aiuti a vivere – aggiungo io – nella santa grazia di Dio». Accetto anche l’offerta alla parrocchia (pur non richiesta) che quasi tutti mi fanno e qui chiedo perdono ai pastoralisti che sognano una Chiesa tutta spirituale. Io devo ancora destreggiarmi tra bollette e fatture e so che non posso limitarmi a dire alle ditte: “Vi ricorderò nelle mie preghiere” o pagare con i santini di padre Pio anziché con assegni e bonifici bancari. Alla sera, tornando in canonica, per una rapida cena e le successive riunioni (pane quotidiano di tutte le serate), sono stanco, molto stanco e molto contento. Se avessi fiato mi metterei a cantare. Concludo dicendo che, se dovessi indicare l’esperienza che maggiormente mi ha fatto crescere nella mia umanità, nella mia fede cristiana e nel sentirmi pastore di un popolo, è stata proprio questa: il passare di casa in casa, di negozio in negozio, di fabbrica in fabbrica, per incontrare persone, pregare con loro e benedire gente, cani, gatti, macchinari e muri.

don Vittorio Montagna Parroco di Chiampo ( Vi)

Se mai, per un’improbabile eventualità – per ora non ce n’ è la minima avvisaglia – un mio figlio desiderasse farsi prete, vorrei che diventasse un prete così. Come don Vittorio. Uno che, giovane pastore di una parrocchia di 300 abitanti, comincia con l’andare a trovare tutti. Non aspettando che venga la gente in chiesa. Uno che, pure timido, prende e va a suonare ai campanelli di case sconosciute. E non si scoraggia, se non gli aprono. Impara, quel prete, nel suo pellegrinaggio, una sorta di assoluta gratuità: non si aspetta niente, non pretende niente. È semplicemente una faccia, una mano che stringe altre mani, una preghiera. Ci sono ragazzi che quando lui arriva se ne vanno in fretta, c’è chi dice “tanto male non fa” – magari sperando che la benedizione porti fortuna all’Enalotto. C’è chi non smette di mangiare o di guardare la tv, una di quelle tv sempre accese, in tante case, a tutte le ore, come fossero l’unica possibile compagnia. Per distrarre gli anziani, per tener buoni i bambini, per non fare pensare i disoccupati, nelle lente ore della loro lunga giornata. È notevole come dalla lettera di questo sacerdote vicentino in poche frasi si disegni un’Italia autentica, domestica, fatta di famiglie e di – non molti – bambini e tanti vecchi; di giovani che sperano e di altri che si lasciano andare; di piccole aziende in cui si lavora e si tiene duro. Don Vittorio lascia poche parole, una benedizione e una immagine della Madonna. Di quelle che poi restano, nelle case, attaccate al vetro di una credenza, o sotto al crocefisso, in alto sul muro, un po’ impolverate. Però ci sono. Segno di una magari timida, non pienamente espressa speranza. Di una domanda di bene che perdura, tenace, dentro la trama faticosa della vita quotidiana. Don Vittorio, ormai 73enne, continua mite e tenace a suonare campanelli, anche se le case ormai sono migliaia. Se nessuno risponde, torna. Anche 3 o 4 volte. Come un postino ostinato, che abbia una missiva importante da consegnare. E in effetti don Vittorio ce l’ha, questa missiva. È l’annuncio che Cristo è vivo ed è in mezzo a noi, fra gli uomini. Dentro l’opaco sguardo orizzontale cui facilmente ci abituiamo, dentro il nostro correre dietro alle incombenze materiali che ci si presentano, lo sconosciuto che bussa alla porta ricorda che c’è una necessità ancora più fondamentale: avere memoria di un Dio che ci conosce e ci ama. Sapere che viviamo nel suo disegno e non dentro a un caso cieco. Questo è l’annuncio del sacerdote che va di casa in casa: in tutte. Contento. Grato a Dio di incontrare persone, pregare con loro e benedire “gente, cani, gatti, macchinari e muri”. Sì, anche i cani e i gatti, e perfino le macchine. Perché nulla viene lasciato fuori, da quella realtà così intensamente accolta e abbracciata. Ecco un buon modo italiano per capire ancora meglio la Chiesa «in uscita» che il Papa testimonia e chiede.

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