lunedì 16 febbraio 2015
COMMENTA E CONDIVIDI
Caro direttore,le scrivo sull’onda delle emozioni, dopo aver letto l’editoriale di Ferdinando Camon «Imparate anti-maestre» su un caso che coinvolge delle insegnanti venete (“Avvenire” di giovedì 12 febbraio 2015). Oltre alla naturale compassione che muovono storie come questa e alla condanna di comportamenti che – se veri – sarebbero inaccettabili, vorrei con grande umiltà farla partecipe dei miei sentimenti. Ho letto le due colonne dello scrittore tutte d’un fiato, di ritorno da una mattinata a scuola. Sono un’insegnante anch’io o, per dirla come si usava, una maestra di scuola elementare.Sono belle parole quelle scritte in quel commento, ma non sono molti i bambini e le bambine che oggi vengono trattati a casa come tesori preziosi, protetti, coccolati, amati. Molti di più sono i bambini “adultizzati”, sia per le esperienze alle quali sono esposti senza filtri e protezioni (cene davanti al telegiornale, tra notizie di morti, guerre, profughi, rapimenti e decapitazioni o gossip di bassa lega) sia per i modi di relazione familiare. Bambini allevati “come bestioline” in un sistema di premi e punizioni che li porta a non interiorizzare e rispettare alcuna regola, salvo l’essere sotto minaccia di chissà quale castigo o allettati da chissà quale “dono”.Le dirò che non è facile dedicare a ciascuno il tempo e l’attenzione che richiede, sostenere la stima di sé, gestire emozioni e paure, desideri di protagonismo, comportamenti al limite (a volte oltre) dell’accettabile e fare in modo che la lezione proceda decorosamente. E forse è proprio perché è siamo considerate, come scrive Camon, «altre-mamme», un prolungamento di quelle che già hanno a casa, che poi in classe i bambini non reggono la frustrazione di non potersi alzare, sedere e rotolarsi come vogliono.Per farla breve, l’altra mattina due bimbi, per essere stati ripresi (senza urli e strattonamenti) proprio perché pretendevano di alzarsi e parlare a loro piacimento durante la lezione, hanno buttato tutto ciò che avevano sul banco per terra, hanno (loro sì) gridato fino a farsi andar via la voce, minacciato di morte i compagni, pianto e scalciato. E, sì, anche a me veniva da piangere e avrei voluto la mia di mamma, anche se di anni ne ho quaranta. Mi chiedo se forse non sono più capace di fare questo lavoro che amo e per il quale mi sono sacrificata tanto, e tremo all’idea di altri ventisette anni così. Forse se lo starà già chiedendo, e allora le dico subito: le famiglie sono informate di questi comportamenti, ma per loro va tutto bene: sono io che non li so gestire e devo pure stare zitta, perché prendo 33.000 euro all’anno (lordi) e sto a casa due mesi d’estate (ci vogliono morte?).A fine giornata, una volta a casa, dovrei recuperare forza, lucidità e sorriso per i miei figli, per farli sentire preziosi e amati... Scusi lo sfogo. Faccia di questa lettera ciò che vuole, ma le chiedo la cortesia di non indicare elementi che possano rendere riconoscibile me o i miei alunni.Grazie.C. T., maestra Sono figlio – il primo di quattro – di una maestra come lei, cara signora. Anche per questo, ma non solo per questo, ho letto il suo “sfogo” con sincera partecipazione e profonda simpatia. Sentimenti che provo per tutti coloro che affrontano praticamente ogni giorno la grande «questione educativa» che si pone nel nostro Paese, ne sanno il senso, ne comprendono l’urgenza e l’accettano come concreta sfida. Sentimenti rafforzati dalla consapevolezza dei troppi che, sia da genitori sia in altri ruoli di responsabilità verso i più giovani, a questa sfida invece si sottraggono. Per insufficiente comprensione, per indifferenza, per pavidità. Vorrei, perciò, riuscire a dirle quanta bella passione “magistrale” ho trovato nelle sue parole, anche in quelle più amare e apparentemente più sfiduciate. Vorrei farle sentire quanto apprezzo questa sua reazione forte allo stimolante editoriale di Ferdinando Camon che, da par suo (e anche da genitore e nonno che non ha mai abdicato ai naturali doveri educativi propri di queste condizioni), aveva ragionato – a partire da un caso di cronaca ancora da chiarire – sul ruolo di chi insegna alle scuole elementari e sul rischio di capovolgere il senso di una professione che, per me che l’ho vista vivere e attuare così da mia madre, con grande lucidità e anche con sofferenza, è – in sé – una delicata e decisiva missione.Non voglio fare la chiosa di ciò che mi ha scritto, gentile e cara amica, ma dirle grazie per ciò che fa ogni giorno nella nostra scuola italiana, tra difficoltà di cui farebbe a meno, e riconoscimenti (morali e materiali) che le sono negati. Ma non rinuncio a tenermi stretta un’idea che lei articola con rapida efficacia e che, non da oggi, trovo particolarmente acuta e utile: quella dell’«adultizzazione» precoce e aggressiva di troppi bambini. È uno dei paradossi di un tempo in cui tanti adulti amano, invece, bambineggiare o consegnarsi a una dimensione da eterni ragazzi, che molto desiderano (cioè, persino imprecando, rivendicano) e poco e nulla trasmettono (cioè, con generosità, offrono). Vale la pena di rifletterci, per cambiare.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI