domenica 3 luglio 2011
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Nel romanzo Papà Goriot di Balzac uno studente chiede a un amico se, potendolo, ucciderebbe un vecchio mandarino in Cina con la sola forza di volontà, diventando ricco. La "parabola del mandarino", ripresa da vari scrittori, tra cui il portoghese Eça de Queiroz, ci pone di fronte a un dilemma formidabile, in cui si contrappongono l’etica della vicinanza e l’etica della lontananza, intese non soltanto in termini spaziali, ma anche culturali, etnici, tribali. Il dilemma si ripropone ogni volta che si affronta un nemico in uno scontro mortale. A prima vista parrebbe che uno scontro ravvicinato (ai ferri corti) implichi una responsabilità e una crudeltà maggiore che non un confronto a distanza: pugnalare il nemico che ti guarda negli occhi pare atto ben più terribile che non premere un pulsante che lancia una bomba su persone che non vedremo mai. Paul Tibbets, il pilota che il 6 agosto 1945 guidò il bombardiere Enola Gay su Hiroshima e sganciò la bomba atomica, in un’intervista del 1975 dichiarò di essere fiero di ciò che aveva fatto: «Dormo sonni tranquilli tutte le notti». Neppure Charles W. Sweeney, il comandante che tre giorni dopo sganciò la seconda bomba su Nagasaki, si pentì mai. Invece, a dimostrazione che le generalizzazioni sono sempre indebite, Claude Eatherly, il pilota del bombardiere Straight Flush che operò da ricognitore pochi minuti prima del bombardamento di Hiroshima, divenne pazzo e si uccise. La guerra, spiace dirlo, è sempre stata un formidabile meccanismo propulsore della scienza e della tecnologia: da Archimede ai giorni nostri le necessità belliche hanno fomentato l’inventiva al servizio della barbarie. Gli ultimi arrivati sulla scena della follia omicida in cui si esprime la guerra sono i "robot soldato", macchine dotate di un certo grado di autonomia e destinate al combattimento a distanza, che aumenta l’efficienza e ottunde la pietà nei confronti dell’avversario. L’inserimento tra me e il nemico di un robot soldato aggiunge alla distanza fisica una distanza psicologica che colora la battaglia di indifferenza, di cinismo e di irresponsabilità. Quest’ultimo punto è forse il più importante: delegando al robot l’uccisione del nemico, l’uomo si scaricherebbe in buona parte della responsabilità del sangue versato. Ma fino a che punto la responsabilità di un’azione criminosa può ricadere sulla "macchina" robot, che almeno per il momento non ha statuto giuridico? Solo nell’ipotesi che il robot possegga una volontà autonoma e magari una coscienza riflessiva si può pensare a un’attribuzione di responsabilità. Altrimenti essa continua a ripartirsi tra progettisti, costruttori, militari e politici, inquietando (si spera) i loro sonni. Col tempo gli umani hanno sviluppato codici di comportamento nei confronti dei nemici o dei prigionieri che aprono isole di misericordia nell’ambito della crudeltà bellica. Si pone qui l’analogo problema per i robot: come indurre nei robot comportamenti di compassione o in genere di etica bellica nei confronti degli umani? La domanda rivela il conflitto tra la loro natura macchinica, che dovrebbe renderli obbedienti alla nostra programmazione, e la loro (parziale) autonomia che, in linea di principio, potrebbe indurli a decisioni nocive nei confronti degli uomini oltre quelle codificate dalle convenzioni belliche. Tra i robot più impiegati oggi dagli Occidentali nei vari teatri di guerra sono i droni (drone in inglese significa ronzio, per esempio di un motore, ma anche bordone, in musica), aerei telecomandati senza equipaggio che sono inviati a colpire obiettivi lontani senza mettere in pericolo i "nostri". A parte i problemi etici generali sollevati dalla guerra, spesso i droni sbagliano obiettivo, seminando morte e distruzione tra la popolazione civile. Un giorno anche il nemico si doterà di droni e robot da guerra e si apriranno scenari da fantascienza: la violenza umana si scaricherà, attraverso le macchine, contro le macchine. Chissà se questa dislocazione della violenza sarà una valvola di sfogo sufficiente...
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