sabato 15 agosto 2015
​Il Paese tra voglia di normalità e l'inquietudine dei giovani. Il turismo è stato fortemente colpito e la società è stretta tra la capacità di attrazione dei gruppi jihadisti e l'impegno del governo nella sicurezza. (Anna Pozzi)
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«Se qualcuno venisse ora in Tunisia, avrebbe un’impressione di assoluta normalità. Gente in strada, in spiaggia, nei ristoranti, ai molti Festival estivi. È un modo per esorcizzare la paura, ma è anche una normalità che nasconde molti problemi». Slaheddine Jourchi è un giornalista e scrittore tunisino, conosciuto anche per la sua militanza per i diritti umani, oltre a essere un esperto dei movimenti integralisti nel mondo arabo Mediterraneo.  A qualche settimana dall’attentato alla spiaggia di Sousse del 26 giugno, che ha provocato 38 morti – e dopo quello al Museo del Bardo, dello scorso 18 marzo, con 24 turisti uccisi – la Tunisia vive come in bilico. Da un lato, la voglia di andare avanti come se niente fosse, «perché se ci lasciassimo condizionare dalla paura, avrebbero già vinto loro, i terroristi», dicono molti tunisini. Dall’altro, però, sempre più domande restano in sospeso e l’inquietudine si diffonde soprattutto tra i giovani.   «Il futuro della Tunisia si gioca su più fronti – analizza Jourchi –: politico, economico, sociale, culturale e religioso e certamente della sicurezza. Il tutto, poi, si inserisce in una dinamica internazionale complessa, che riguarda, da un lato, la situazione di grande crisi che sta vivendo il mondo arabo e, dall’altro, le relazioni con l’Europa e l’Occidente».  «Non lasciateci soli», avevano chiesto i tunisini all’indomani dell’attentato del Bardo. La presenza alla grande manifestazione che ne era seguita del presidente François Hollande, del primo ministro italiano Matteo Renzi e di molti altri leader internazionali, aveva avuto un valore simbolico molto forte. «A cui tuttavia – sostiene Jourchi – non sono seguiti fatti concreti. E questo è stato ancora più evidente dopo l’attentato di Sousse. Ci hanno lasciati soli, pur sapendo che siamo importanti anche per l’Europa. E se non si interviene qui, si avranno conseguenze anche altrove. Non sono pessimista, ma voglio essere realista. Quello che succede nel mondo arabo è importante non solo per gli arabi. È necessario affrontarlo tutti insieme».   Certo, poi ciascuno deve prendersi le proprie responsabilità. Sempre più tunisini sono critici circa le capacità e l’efficacia delle misure adottate dal loro governo. L’entusiasmo per il processo democratico avviato dopo la “rivoluzione” – e che solo qui ha portato risultati tangibili – lascia gradualmente il posto ai dubbi. «La situazione politica è stabile, ma è molto fragile. E a livello economico e sociale ci sono molti problemi. La situazione finanziaria non è equilibrata e il governo non arriva ad avere l’appoggio reale dei sindacati.  La disoccupazione è dilagante e gli specialisti del mercato stimano che il mercato tunisino sia letteralmente invaso da merci di contrabbando, che passano attraverso la Libia. Molti uomini d’affari, poi, legati al vecchio regime, devono risolvere complessi dossier, mentre i nuovi investitori non riescono a lavorare in condizioni normali, anche per i problemi legati alla sicurezza».  Il governo attuale ha messo tra le sue priorità la lotta al terrorismo sia a livello politico-sociale sia della sicurezza. Tuttavia, anche se minoritari all’interno della società tunisina, i gruppi terroristici riescono a infiltrarsi e a diffondere la loro ideologia e la loro propaganda, oltre a colpire luoghi-simbolo soprattutto del turismo. Risultato, l’aeroporto di Tunisi è desolatamente vuoto in quello che è il periodo clou delle vacanze e una delle principali fonti di entrate è stata praticamente azzerata anche per quest’anno. Il governo ha introdotto facilitazione per incentivare il turismo di ritorno dei tunisini residenti all’estero. Ma è solo una manovra “palliativa”. Così come lo è, secondo Slaheddine Jourchi, l’idea di costruire una “barriera” lungo la frontiera con la Libia: un muro di sabbia lungo 168 chilometri tra le città di Ras Jedir, lungo la costa, e Deliba, nel sud, che dovrebbe essere terminato entro il 2015 e che coprirebbe solo una parte dei 450 chilometri di confine. Una misura destinata a “frenare la minaccia terroristica”, secondo il capo del governo, Habib Essid.   Jourchi è perplesso, anche se non pregiudizialmente contrario. «Il muro potrebbe servire a controllare le frontiere e ad aiutare le forze di sicurezza a limitare le infiltrazioni di terroristi, specialmente in questo periodo di difficoltà, oltre a riequilibrare i rapporti di forza tra Stato e gruppi terroristici. Ma non è certamente la soluzione. Serve una visione più ampia, più globale. Serve capire, ad esempio, perché tanti giovani tunisini continuino ad essere attratti dai gruppi jihadisti e ad andare a combattere o ad addestrarsi in Libia, Iraq o Siria».  Le difficoltà economiche e sociali non bastano a spiegare il fenomeno, secondo l’analista tunisino. A suo avviso, occorrerebbe analizzare meglio le dinamiche religioso-culturali. «Il dopo-rivoluzione non ha affrontato adeguatamente questa questione. Il partito Ennahda e la Troika che hanno governato il Paese non hanno né studiato né compreso questo fenomeno, nonostante Ennahda fosse esso stesso un movimento islamico. È una questione molto complicata, ma anche cruciale. Andiamo avanti sulla difensiva, ma non arriviamo a capire né a prendere misure reali».  Questa difficoltà a concretizzare politiche efficaci di contrasto del terrorismo e di consolidamento della democrazia riguardano anche i rapporti con gli altri Stati.   «Occorre anche un dialogo più aperto e costruttivo con l’Europa e l’Occidente in generale. I tunisini vogliono uscire da questa situazione. Sono pronti a essere governati da un sistema democratico che però va consolidato. L’Occidente, a sua volta, parla di aiutare la Tunisia in questa fase di transizione democratica. Ma sono solo parole. In realtà non ci sono accordi reali, non c’è un vero impegno ad accompagnare la Tunisia affinché entri a far parte, a pieno titolo, della grande famiglia dei Paesi democratici».
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