mercoledì 16 marzo 2011
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La melma nera è uguale. E anche lo sfacelo lasciato dall’acqua che si ritira: binari divelti, case sventrate, Tir come accartocciati dalla mano di un gigante stizzito. Per chi è stato in Indonesia e in Thailandia dopo lo tsunami del dicembre del 2004 le immagini dal Giappone acquistano come una più concreta dimensione: di quel fango colloso ancora senti l’odore molle, dolciastro di putredine. E le domande dei figli, dei colleghi, e sui giornali, sono le stesse: dov’era Dio, e perché ha permesso tanta morte? Che Dio è un Dio distratto o indifferente, che lascia annegare i malati immobili nei letti, e i vecchi troppo lenti per scappare? Sei anni fa, arrivando a Banda Aceh, la prua dell’isola di Sumatra colpita in pieno dall’onda, avevo queste domande addosso. Dall’aereo quella terra era rigogliosa come un paradiso terrestre, e così azzurro e pacifico l’oceano. Ma poi d’improvviso vedevi la costa mangiata e sfregiata dall’onda, per chilometri; e solo melma nera, dove c’erano i villaggi degli uomini. In un povero mercato tra le macerie si vendeva pesce infangato che nessuno comprava; e da un registratore chissà come scampato usciva struggente la voce di Bob Dylan, knockin’ on Heaven’s door, «bussando alle porte del paradiso». Già, il paradiso, e il mio Dio buono, dov’erano? A Banda Aceh, regione islamica integralista, c’era un unico missionario cattolico, un prete italiano. Lo incontrai mentre guidava una jeep decrepita d’anni e di fango; era andato a benedire altri morti di quella strage infinita. Senza fiato per ciò che vedevo gli feci prima di tutto, con urgenza, quella domanda: dov’era Dio? Perché lo ha permesso? Il missionario, un romagnolo di settant’anni ancora dritto e vigoroso, mi guardò con durezza: «Queste sono le domande che vi fate voi oggi in Occidente», rispose secco. «Noi cristiani dovremmo sapere che dal giorno del peccato di Adamo il mondo è in equilibrio precario, come in bilico. Che è incrinato nella profondità: e qualche volta il male prevale e scoppia, in modo anche terribile. Ma non è colpa di Dio: è il male scelto da Adamo, è il nostro male. E però noi sappiamo anche che Cristo ha vinto la morte, e che quindi ogni volta dobbiamo ricominciare». Mentre mi dava questa brusca lezione il prete non perdeva tempo: intanto caricava sulla sua jeep cibo e acqua da portare ai superstiti, chissà dove. Se ne andò con il rombo faticoso del motore vegliardo, e mi lasciò nella missione. Con una suora biellese e un giovane camilliano arrivato dagli Usa facemmo un giro: che sfacelo, e quanti morti ancora nei campi allagati. Il 'nostro' male? Rimuginavo le parole del prete. A me nessuno aveva parlato del peccato originale così, come di un motore attivo e potente di male; alimentato da tutte le infinite violenze palesi e nascoste che ogni giorno si compiono nel mondo. Omicidi, stupri, bambini violati, ma anche l’avarizia di chi accumula e affama, anche il nostro piccolo garbato calunniarci fra vicini. Tutta la massa di male degli uomini, capace di avvelenare il creato, di muovere gli abissi: possibile? Io ricordavo il libro della Sapienza: «Dio non ha creato la morte, e non gode per la rovina dei viventi». Che cosa dunque avvelena le faglie, e spinge gli uragani? Nel catechismo della Chiesa cattolica ho letto: in conseguenza del peccato originale «la creazione visibile è diventata ostile e aliena all’uomo. A causa dell’uomo la creazione è soggetta alla schiavitù della corruzione». Dunque il giudizio del vecchio missionario era ortodosso, e io ignorante o dimentica, come tanti? «Tutta intera la storia umana è pervasa dalla potenza delle tenebre, lotta incominciata fin dall’origine del mondo, che durerà, come dice il Signore, fino all’ultimo giorno», dice la Gaudium et Spes. Ho visto quella lotta: era un prete dall’accento romagnolo che si affannava a sfamare i bambini, era la suora biellese che gemeva di pena davanti alle risaie distrutte dall’acqua marina. Ma già pensava a come cominciare di nuovo: cosciente del male e però ostinatamente certa di un Dio più forte della morte.
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