La resistenza nonviolenta è utopia? Solo se non la radichiamo nella vita

sabato 26 novembre 2022

Tre lettere con la stessa preoccupazione di non arrendersi al male che si manifesta nella guerra, a partire oggi da quella d’Ucraina, ma di diversa intonazione (e una seccamente polemica con i pacifisti). Provo ancora una volta a ragionare. È più facile fornire armi che praticare un sostegno vero e costante a chi si difende senza distruggere né uccidere

Caro direttore,

leggendo, guardando e sentendo i resoconti di guerra dall’Est europeo non posso fare a meno di ripensare alla Polonia degli anni della repressione contro Solidarnosc, con l'autogolpe del generale Jaruzelski telecomandato dall'Urss. I tempi e le situazioni sono molto diversi, allora una resistenza in armi non era neppure ipotizzabile, ma certo la resistenza non armata fece risparmiare tante vittime e risultò vincente dopo pochi anni, oltre a trascinare un'onda imponente di solidarietà internazionale di cui fummo tutti protagonisti. La domanda, perciò, anche in me si rafforza: valeva la pena, ed era davvero l'unica forma possibile, la difesa in armi per l'Ucraina?
Roberto Ceresoli
Milano

Caro direttore,

martedì scorso, la professoressa Elsa Fornero, ex ministra, è stata ospite su La7 del talk show condotto da Floris e, a un certo punto, stava argomentano che l’Europa ha sbagliato nelle posizioni assunte rispetto al conflitto russo-ucraino: ma non è riuscita a finire la frase, perché è stata interrotta dal conduttore. Non so se per questioni di tempo o perché non si può dire che l’Europa ha sbagliato troppo nel suo approccio al conflitto in terra europea. Ora purtroppo, quello che il popolo della pace e molti editorialisti di “Avvenire”, avevano previsto, si sta avverando (ahimè): l’escalation continua e ne è parte la sistemica distruzione da parte dei russi di Putin delle infrastrutture che permettono alle popolazioni dell’Ucraina di superare i gelidi inverni in quella terra. Eppure sembra che nessuno cerchi di avviare una soluzione negoziale del conflitto e, comunque, non si sentono parole che la propizino. Si continua per la via delle armi in una progressione sempre più forte, senza sapere dove si potrà finire, sempre all’interno della nefasta logica che prevede la vittoria di una parte o dell’altra Così non va. Italia ed Europa devono svegliarsi, i politici si sveglino! Solo la pace dà senso alla politica, alla cura dei cittadini e all’esercizio stesso del potere.
Francesco Masut
Belluno

Gentile direttore,

a cosa è servita la manifestazione pacifista del 5 novembre scorso, salutata da “Avvenire” con il fallace titolo «Corpi di pace». Sinora non è servita a nulla! Anzi la Russia sta seminando il terrore contro i cittadini ucraini, le strutture e infrastrutture civili e sanitarie tanto da essere ormai definita dal Parlamento europeo come uno «Stato terrorista». Il vice presidente della Duma ha dichiarato di voler un’Ucraina riprecipitata al XVII secolo. La Russia di Putin sta operando contro l’Ucraina un crimine come quello dell'Urss di Stalin negli anni 30 del Novecento. Non basta dire vogliamo la pace. Dev’essere una pace giusta, altrimenti – come tanti comunisti putiniani che erano ampiamente presenti nella manifestazione romana – si mente perché si vuole far vincere la Russia in odio ai valori occidentali. Personalmente non sfilerò mai con costoro, e non penso di fare una scelta non cristiana. Saluti cordiali.
Giuseppe Gatti

In questa prima domenica dell’appena iniziato decimo mese di guerra aperta in Ucraina scelgo tre lettere di diversa intonazione e con preoccupazioni non coincidenti ma egualmente animate dal rifiuto della barbarie, della sopraffazione e della violenza che segnano ogni guerra e che in questa nuova guerra d’Europa non possiamo assolutamente fingere di non vedere. Cosa che purtroppo in altre situazioni abbiamo fatto e ancora facciamo. Eppure la guerra è questo e solo questo: pura violenza, distruzione sistematica del “nemico”, assassinio di massa organizzato e – dalla Seconda guerra mondiale in poi – sempre più strage di civili che di militari. Non ce lo diremo mai abbastanza, non lo si capirà mai troppo presto. Per questo la guerra va scongiurata, svuotata di armi e di opposte pretese, prima che s’inizi. E quando si lascia che s’accenda, bisogna fermarla prima possibile.

La diversità dei toni e delle argomentazioni delle tre lettere (due vicine tra loro e con la linea di questo giornale, la terza polemica) è del tutto comprensibile e riecheggia quella che in questi mesi ha conosciuto ben altre asprezze. Non sarò certo io a sorprendermene. Anche se non mi abituo a un’espressione usata dal signor Gatti, quando parla di «comunisti putiniani» per etichettare gran parte del “popolo della pace” che ha dato vita alla grande e bella manifestazione del 5 novembre. Un ossimoro spericolato, visto che Vladimir Putin, l’invasore dell’Ucraina, è grande riferimento (e potrei dire di più) di una dura destra internazionale che di liberale non ha nulla. Quanto al fatto che a Mosca ci sia chi sogna un’Ucraina riprecipitata al XVII secolo, consiglio di rileggere un’analisi di Fulvio Scaglione del marzo scorso.

Ma vorrei concentrarmi sulla domanda del signor Cerasoli: alla luce del disastro bellico in atto, possibile che nessuno si chiede se la difesa armata dell’Ucraina fosse davvero la sola via possibile per opporsi all’invasione russa? Sarebbe stata praticabile una “via polacca” come quella tracciata e percorsa da Lech Walesa? La domanda è per me, ma andrebbe rivolta a tutti coloro che continuano a sostenere che la guerra non si può abolire. Andrebbe indirizzata a tutti quelli che sibilano o dottamente argomentano che quando il Papa reclama la rinuncia al “cainismo” guerresco dice cose belle, facendo il suo mestiere di uomo di Dio, ma – poverino – sogna perché sulla terra degli uomini la guerra si fa, eccome. Andrebbe ripetuta ai politici e agli opinionisti che continuano a liquidare come bizzarri e illusi i tanti che in questi anni – da Giorgio La Pira a Gino Strada – non hanno mai smesso di chiedere a gran voce l’abolizione della guerra e a spendere la loro vita per non acconsentire al male e per realizzare quella che il vescovo Tonino Bello chiamava la «convivialità delle differenze», cioè per la pace. Che è un lavoro entusiasmante, ma strenuo e faticoso, non una passeggiata nel parco o in piazza, anche se ogni tanto da mobilitare – e meno male – grandi piazze. Io, invece, sono tra quanti pensano che sia proprio questo il tempo per abolire la guerra, cioè per ripudiarla (secondo il dettato della nostra Costituzione) come strumento nelle relazioni tra gli Stati e contro i popoli. E credo che sia un imperativo morale e politico che la fede cristiana rende più pressante, e che l’umana ragione sostiene comunque la si pensi. Il signor Masut, nella sua lettera, lo sottolinea con efficacia.

Sì, credo anch’io che l’uso ben controllato della forza vada lasciato solo alle forze di polizia degli Stati e alle Nazioni Unite. E credo che si possa scegliere di resistere all’iniquità con la nonviolenza, cioè con la disobbedienza civile, l’obiezione di coscienza, le manifestazioni popolari, la pressione incessante dei media e delle opinioni pubbliche nazionali e internazionali... Si può insomma resistere con una grande ed effettiva solidarietà, solinarnosc in polacco, che non è mai rassegnazione alla sopraffazione e all’ingiustizia e non è mai resa.

Certo, se il prezzo della guerra è carissimo, anche il costo della resistenza nonviolenta lo è: tracotanza degli oppressori, censura, intimidazioni, emarginazioni, incarcerazioni, assassinii... Ma la resistenza senz’armi invece di distruggere, costruisce. È rinuncia all’annientamento delle vite umane e delle cose, e dunque è pienamente “difesa”. Dicono che sia un’utopia. Ma è “non-luogo” (utopia, appunto) solamente se siamo noi a non darle luogo, perché non la radichiamo nelle nostre esistenze e nella direzione politica che diamo alle nostre comunità o che subiamo senza resistere alla logica della guerra, dei suoi teorizzatori e dei suoi “signori”. Dipende da noi rendere possibile la resistenza nonviolenta perché senza una grande adesione popolare e senza una fraternità sconfinata (cioè letteralmente senza confini) non si fa. Credo che questa consapevolezza stia crescendo nella vita e nell’impegno di tanti. E vorrei che diventasse movimento imponente in Italia e in Europa, capace di contagiare il mondo e di saldarsi ai movimenti in atto in tutte quelle realtà, dalla Colombia al Myanmar, dove è praticata in condizioni difficilissime e senza il costante sostegno che merita. È più facile vendere armi che stare accanto a chi non le usa e non intende farlo. Ma si deve, e si dovrà di più.

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