Carceri, la privazione della dignità
venerdì 18 agosto 2023

Questo articolo uscirà probabilmente fuori tempo massimo. La permanenza dell’attenzione mediatica, politica e sociale sulla questione penitenziaria è generalmente di un paio di giorni per ogni suicidio in carcere (arriva ad una settimana per ogni evasione, solo perché è fatto che ingenera allarme sociale). Poi, con inconfessabile sollievo, tutto torna nel buco nero della rimozione collettiva, senza scrupoli eccessivi, perché rispetto alle vittime di altri drammi umanitari i detenuti pagano per loro colpe. Si potrebbe far osservare che la pena per la commissione di reati consiste nella privazione della libertà, non della dignità e della speranza: ma alle persone civili la precisazione suonerebbe giustamente come un’ovvietà; alle altre, come un buonismo insopportabile.

Il più grande desiderio sarebbe che le successive righe non recuperino mai attualità; l’angosciante certezza è che la ritroveranno presto, e per molto tempo ancora. Basta lasciar parlare i fatti: i fatti sono argomenti testardi.

A dieci anni di distanza dalla sentenza (Torreggiani contro Italia) con cui la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato il nostro Paese per aver violato l’art. 3 della Cedu (Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti), la situazione nelle nostre carceri è raccontata da questi dati.

Nel 2022, è stato toccato il numero più alto di suicidi, 85. Nei primi otto mesi dell’anno già è stata raggiunta la cifra di 47, e non sempre in questo raccapricciante computo sono compresi coloro che si sono lasciati morire di fame e di sete nel disinteresse generale. Centinaia i tentativi di suicidio sventati dalla polizia penitenziaria. Un quinto della popolazione carceraria si è abbandona a gesti di autolesionismo, quasi la metà fa uso di psicofarmaci; solo nello scorso anno, in più di 4.500 casi la magistratura ha riconosciuto che i detenuti hanno subito un trattamento inumano e degradante. Fuori dal carcere poi, ci sono più di 90.000 cosiddetti liberi sospesi, cioè condannati che attendono per anni di sapere se dovranno scontare la pena in carcere.

Una situazione drammatica, ad eziologia complessa. Alcune tra le principali cause: magistratura di sorveglianza e polizia penitenziaria sotto organico; personale psicopedagogico praticamente assente; strutture spesso fatiscenti, sempre inadeguate; limiti normativi alla funzione risocializzativa della pena; ipercriminalizzazione e risposta carcerocentrica al reato; soprattutto, grave carenza di opportunità formative e lavorative. A quest’ultimo proposito, merita di essere segnalato, in termini di sicurezza sociale, come secondo recenti dati forniti dal Cnel, in Italia il tasso di recidiva medio è del 68,7%; ma scende al 2% per i detenuti che hanno un contratto di lavoro.

Si può dunque dissentire sui fattori patogeni o sul loro coefficiente di incidenza, non sulla diagnosi: una diagnosi di drammatica gravità che era già contenuta nella autorevoli parole del Presidente Mattarella in occasione del suo secondo insediamento: «Dignità è un Paese dove le carceri non siano sovraffollate e assicurino il reinserimento sociale del detenuto. Questa è anche la migliore garanzia di sicurezza». Implicito, ma inequivoco il referto: lo stato delle nostre carceri è quello di un Paese senza dignità.Le responsabilità non sono certo - se non per i dieci mesi di inerzia - di questo Governo, ma le prospettive ci sembrano sconsolanti. Probabilmente è colpa nostra se non riusciamo a farci coinvolgere dall’ottimismo del vicepresidente del Senato, onorevole Gasparri, secondo cui: «Basta applicare le leggi che ci sono. Nordio, ci vuole un minuto per avviare questo percorso. Non bisogna nemmeno fare norme nuove».

Il ministro della Giustizia ritiene, invece, che ci voglia più di un minuto e da tempo ormai allude alla necessità di interventi diversificati, ma sono intenzioni ancora di una vaghezza disarmante, a parte l’idea di utilizzare come carceri le caserme dismesse. Idea che, a tacer d’altro, sembra ridurre il dramma carcerario a un problema di capienza architettonica. Così però non è, se si pensa che al tempo della sentenza Torreggiani con un tasso di sovraffollamento che raggiungeva quasi il 150% i suicidi erano 69 all’anno, mentre nel 2022, con un tasso pari all’incirca al 120%, sono saliti a 85.

Restiamo, ancora una volta, ai fatti. Chiusi nei cassetti ministeriali ci sono la miniera di analisi, di progetti, di soluzioni operative lasciata dagli Stati generali dell’esecuzione penale che hanno visto coinvolte ideologie, professionalità ed esperienze diverse; la riforma penitenziaria elaborata dalla Commissione nominata dall’allora Guardasigilli Orlando; le indicazioni fornite dal Gruppo di lavoro istituito dall’ex ministra Cartabia per l’innovazione del sistema penitenziario. Possibile che in questa copiosissima riserva di proposte già normativamente elaborate non vi sia nulla da recuperare per una nuova iniziativa legislativa?

Gli unici disegni di legge in materia sono quelli volti a ridimensionare la funzione rieducativa della pena sancita dall’art. 27 della Costituzione e ad abolire il reato di tortura.

Ora torniamo ad occuparci del caro-ombrelloni.

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