domenica 1 maggio 2016
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Gentile direttore, leggo su “Avvenire” del 28 aprile 2016 l’intervista rilasciata dal Vescovo di Aleppo, monsignor Antoine Audo, nella sede italiana di “Aiuto alla Chiesa che soffre”. Parole che spiazzano e tagliano come una lama: «Non è l’accoglienza la vera priorità. La sfida è fermare questa folle guerra che in cinque anni ha messo in ginocchio la Siria», «mi addolorano i muri che si alzano in Europa, l’egoismo, le meschine convenienze della politica. Ma questo drammatico esodo, che va avanti in un surreale e atroce silenzio di troppi media, è ancora più terribile. L’obiettivo vero non è accogliere; è fermare l’esodo, è aiutare i siriani a restare nelle loro case». «Serve una volontà internazionale fortissima, serve un grande patto tra le grandi potenze a cominciare da Stati Uniti e Israele. Serve mettere da parte bassi interessi economici e serve dire “no” al traffico di armi e al dio denaro. Una sfida complicata, ma non più rinviabile», «quando il business delle armi sarà finito finirà anche Daesh. Il male più grande è quel fondamentalismo “largo” che si innerva nella società. Che vuole distruggere e dividere. Che, scientificamente, punta a spazzare via i cristiani dalla Siria. Che lavora a una folle vittoria dell’islam sulla cristianità. Che vuole indebolire la Chiesa». «C’è un mondo sordo, ma c’è un grande Papa che non si rassegna a tanti orribili silenzi. Francesco ha visione e ha la forza di chi è libero». Di fronte a tragedie immense, di fronte all’impotenza degli uomini, di fronte al male che sembra avanzare in maniera irresistibile, la Madonna continua a sollecitarci alla conversione ricordandoci che con la preghiera e con il digiuno si possono fermare anche le guerre. Ma noi cristiani dell’Occidente abbiamo più la fede? Francesco Maria Nocelli Mi interrogo spesso anch’io sullo stato della nostra fede di «cristiani di Occidente», gentile e caro signor Nocelli. E con altrettanta forza su ciò che ci dicono i nostri fratelli e sorelle «cristiani d’Oriente» (e «cristiani del Sud del mondo») con la loro fede vissuta nella minorità, nella discriminazione, nella persecuzione e troppe volte nel martirio. Spero di farmi capire bene perché la questione mi sta a cuore e segna nel profondo pure il lavoro che, da cronista e da cattolico, faccio ormai da una vita e con particolare intensità in questi anni di direzione di “Avvenire”. Credo che i due interrogativi siano inestricabilmente collegati. Provo a dirlo così, con la preoccupazione di chi non ama le generalizzazioni e con la gioia di chi conosce (grazie anche al mestiere che fa) la ricchezza non raccontata mai abbastanza di esperienze “occidentali” di Chiesa ancora e sempre vere e «attraenti»: ormai tanti di noi, anche se non necessariamente in modo banale, si arrovellano soprattutto sulla “forma” della fede e su quanto essa “informi” ancora le “forme” (e le regole) delle nostre società; i fratelli perseguitati continuano a dimostrarci che cosa vuole dire vivere la “sostanza” della fede. Che è adesione a Cristo, fino a diventare – come ci ricorda papa Francesco – la «carne» del Crocifisso. In Lui e per mezzo di Lui nessuno è solo, e nessuna prova, nessuna ostilità, nessun marchio, nessun disprezzo per il “modo” dei cristiani spezza la persona e la comunità che li subisce. Possono spezzare vite e spazzare via presenze – ed è delitto immenso, verso Dio e verso gli uomini, al quale non ci si deve rassegnare – ma non indurre all’infedeltà. È così: una forma, un abito, si possono cambiare, accantonare o smettere del tutto, la carne no. Ecco, gentile amico, a me questo rammenta che in qualunque contesto, ciò che conta è la nostra fedeltà, il restare nel Suo amore, e la testimonianza che così sappiamo rendere. E mi spiega in modo persino scandaloso al confronto con le nostre irresolutezze (e anche certi pedanti formalismi) la forza fragile eppure impressionante di uomini e, in particolare, donne e madri, che potrebbero scampare al pericolo e alla morte semplicemente arrendendosi a una pratica e a un’interpretazione odiose dell’islam o di altri poteri mondani e religiosi, ma non lo fanno. Non cedono. E continuano a proclamare con la loro vita umiliata e minacciata che Gesù, vero Dio è vero uomo, è il Cristo, il Principe della pace, la Parola che salva. Stare al fianco di ogni perseguitato, batterci per far aprire gli occhi sull’ingiustizia e per farla finire, pregare e digiunare –, ogni volta che possiamo e che ci viene chiesto – con i fratelli e le sorelle nella prova, ci restituisce alla semplice consapevolezza che il male non è inevitabile e neppure irresistibile, che vincere il male col bene è compito possibile, e che la nostra fede o è ricerca e sostanza di vita buona o non è. © RIPRODUZIONE RISERVATA
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