giovedì 23 agosto 2012
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Un Papa a oltre tremila metri di quota si fa fatica a immaginarlo. Poi, quando si sale fin lassù, sull’Adamello, si comprende subito il motivo di tanto desiderio, con lo sguardo che spazia all’infinito. È capitato a me che, qualche giorno fa, con mia moglie e una coppia di amici, per una sorta di debito di riconoscenza verso il pontefice polacco, mi sono incamminato lungo la Val Genova. Dalla valle laterale della Val Rendena, in provincia di Trento, all’interno del Parco naturale Adamello-Brenta, parte un sentiero per escursionisti esperti. Lontano da internet, dalle email che imperversano sui tablet e gli smartphone, senza linea per il cellulare, abbiamo vissuto a stretto contatto con uno scenario naturale da incanto. Il tragitto dal versante della Matarot non dà tregua, ma a ogni passo allarga l’orizzonte. Chi sale lascia le cime delle tre Lobbie alla sua destra e la vedretta omonima a sinistra. L’aria si fa sempre più rarefatta, il ritmo delle pulsazioni aumenta, ma il desiderio di giungere fino al rifugio intitolato "Ai caduti dell’Adamello" fa compiere tutti i passi necessari per completare un’ascesa di 1.500 metri di dislivello. Lungo il sentiero tra i sassi, sulla liscia roccia attrezzata o sul ghiacciaio che precede la sella finale, un solo pensiero soccorre chi intraprende tale avventura: ogni tanto c’è bisogno di ritirarsi nel silenzio e di lasciare libera la mente. Gli occhi guardano in alto e scrutano i segni che indicano la meta. Dopo diverse ore di cammino non sempre facile, si intravede prima una bandiera e poi un piccolo campanile. Là, in mezzo alle rocce, su un costone troppo scosceso per sostenere un rifugio, c’è un luogo di riparo in cui il gestore accoglie l’alpinista come fosse uno di famiglia, conosciuto da sempre. Nella grande sala in cui è sistemato uno schermo sul quale viene proiettato un video sui deliri della Grande Guerra che qui si è combattuta in mezzo a geli e a intemperie inimmaginabili, è collocato un busto di Giovanni Paolo II. Al primo piano c’è la cameretta in cui ha soggiornato. In ogni parete un suo ricordo, una foto di un suo gesto, una sua frase. Qua il "nostro" Papa veniva spesso. Qua saliva per ritirarsi coi suoi mille pensieri, per stare a più stretto contatto con Dio. Qua fece sistenare la grande croce di marmo che domina la valle, a ricordare a tutti chi governa queste meraviglie che l’uomo mette a repentaglio, prima con i conflitti, le cui tracce sono ovunque visibili, ora con l’inquinamento. La montagna è fatica, è ricordo, è metafora. La montagna è maestra, insegna a combattare e a convivere col dolore. Insegna a superare le difficoltà, a fare amicizia, a rispettare se stessi, il prossimo e il Creato. Insegna a seguire una guida sicura e affidabile. La montagna è un dono stupendo che aiuta a riflettere. Quando, dopo aver oltrepassato l’altare su cui Giovanni Paolo II ha celebrato, si sale sulla Lobbia Alta, a quasi 3.200 metri, e si osserva sotto di sé il ghiacciaio (quello che abbiamo percorso il giorno dopo fino al rifugio Mandrone per tornare al punto di partenza) e le cime a corona che raccontano di imprese e di tragedie, non si può non alzare una preghiera di lode a Chi ha pensato tutto questo. La vista cerca di andare oltre, di vedere anche quello che è coperto dalle nuvole: non può non esserci qualcuno che ci ha voluto così bene facendoci dono di tanta meraviglia. Troppo bello per essere vero. Eppure è vero. La montagna, così inospitale e così inaccessibile, si fa conquistare. La montagna è un luogo privilegiato che avvicina a Dio, come ci ha insegnato papa Wojtyla. È un luogo che rigenera il cuore di chi cerca e da cui tornare alla vita di ogni giorno dopo un’impresa che stampa un ricordo per sempre.
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