venerdì 20 aprile 2012
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La sua tomba e la sua chiesa, quella dove venne ucciso il 19 marzo 1994. Profanati due luoghi simbolo. Luoghi della memoria di don Peppe Diana, il parroco colpito dai killer della camorra per aver lanciato alla sua terra un messaggio di speranza: «In nome del mio popolo non tacerò». Due furti, in sequenza. Nella cappellina del cimitero e nella parrocchia di San Nicola a Casal di Principe. All’interno della cappellina, nella notte tra il 17 e il 18, sono stati sottratti il calice del sacerdote e una piccola targa dorata, donata da don Luigi Ciotti. Un premio – l’immagine di due mani che si stringono – che il presidente di Libera aveva ricevuto nel 2009 per il suo impegno sul fronte della legalità e aveva voluto donare nel ricordo dell’amico don Peppe. A scoprire il grave gesto un volontario che stava accompagnando una scolaresca in visita alla tomba. Come accade quasi ogni giorno. Scuole, gruppi scout, associazioni vengono da tutta l’Italia a incontrare il sacerdote. Una tomba piena di colori, le sue foto sorridenti, i fazzolettoni scout (don Peppe era un capo dell’Agesci), piccoli oggetti e bigliettini lasciati dai ragazzi. E i fiori che portano ogni giorno mamma Iolanda e i fratelli del sacerdote. La cappellina, che da otto mesi accoglie anche papà Gennaro, è in fondo al cimitero di Casal di Principe. Per arrivarci si passa accanto a cappelle ben più grandi e ricche, di "famiglie" tristemente note, quelle che hanno voluto la morte del giovane parroco. Ma queste non sono state toccate. E nessun altra. Solo quella del sacerdote. La conferma che non si trattasse solo di un furto è arrivata alcune ore più tardi, quando in parrocchia è stata scoperta la scomparsa di tre calici, razziati l’altra notte. Chi ha commesso questi gesti sapeva benissimo dove stava rubando. «È gravissimo, qualunque ne sia la matrice – ha commentato il magistrato della Dda di Napoli, Cesare Sirignano, uno dei più esperti nel contrasto ai clan casertani –. Don Diana infatti è un simbolo di riscatto per una terra martoriata; è una figura che a distanza di 18 anni dà ancora molto fastidio». Anche perché i semi gettati da don Peppe stanno dando buoni frutti. E cominciare da una Chiesa sempre più presente e attiva. Lo scorso 19 marzo, anniversario dell’omicidio, proprio nella sua parrocchia ieri sfregiata (e certo non è un caso...), il vescovo di Aversa, monsignor Angelo Spinillo, davanti a tantissimi cittadini di Casale, ha presentato un importante documento che rilancia e rinnova quello che don Diana e gli altri parroci della zona elaborarono venti anni fa e che diede molto fastidio alla camorra e ai suoi alleati. Il vescovo ha definito quell’omicidio «una violenza disperata contro chi è visto come ostacolo per le logiche dell’interesse e del profitto». Forse ancora oggi, in una terra che sta davvero cambiando. Il prossimo 17 maggio avvierà la produzione il caseifico sorto sui terreni confiscati ai clan, dove lavora la cooperativa "Le terre di don Peppe Diana". E sono centinaia i giovani che da tutto il Paese nella prossima estate verranno qui a svolgere campi di lavoro. Qui e nelle altre realtà che operano con volontà di cambiamento nei beni strappati alla camorra. Segni di speranza e di vita. Troppo per clan profondamente colpiti negli ultimi mesi dalle forze dell’ordine, basti ricordare gli arresti dei superlatitanti Iovine e Zagaria. E che con gli scioglimenti di alcuni Comuni, compreso Casal di Principe, vedono incrinarsi pure le coperture politiche. Troppo davvero. E la camorra – le giovani leve o le "famiglie" ancora poco "toccate" e desiderose di rivendicare il potere dei clan – risponde ancora una volta con la violenza. Contro chi pensava di aver messo a tacere a colpi di pistola. Lo aveva già fatto danneggiando due volte il parco giochi di Casal di Principe dedicato proprio al sacerdote. Ma chi ieri ha rubato alcuni oggetti non può rubare la memoria di don Peppino. Lui continua a parlare, a «salire sui tetti per gridare parole di vita», come aveva invitato a fare venti anni fa. Molti lo hanno fatto e continuano a farlo. In nome di una terra che non vuole più essere vista come "terra di Gomorra", ma sempre più come "terra di don Peppe Diana".
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