venerdì 30 novembre 2012
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Benedetto XVI il 30 novembre 2007 firmava la sua seconda Lettera Enciclica, che reca il titolo Spe salvi. Non c’è chi non veda come la riproposizione della speranza in un tempo in cui si sperimenta una grande difficoltà di futuro, fatta anche di disaffezione a esso, assuma il carattere di un vero e proprio gesto profetico. Benedetto XVI, con la sua Enciclica sulla speranza compie una 'provocazione' anche oltre il territorio cristiano, scuotendo l’uomo post-moderno irretito nel presente come un animale da selva braccato, che rifiuta il passato ed è spaventato dal futuro.C’è stato una lunga per reticenza sul tema della speranza, che si è espressa in tanti modi, anche come silenzio sul futuro storico e sul futuro ultimo, che ha toccato la filosofia, la teologia e perfino diversi altri servizi della Parola. Si è trattato di un silenzio che, nella Chiesa cattolica, è stato felicemente interrotto nella seconda metà del Novecento, dal Vaticano II, significativamente chiamato «il Concilio della speranza», rispetto al quale Papa Roncalli parlò di «fiore spontaneo di inaspettata primavera» (4 agosto 1959). Il 'silenzio della speranza' ha continuato a tornare con il suo rattristante clima anche dopo il Concilio e la Spe salvi ha rappresentato un’altra splendida interruzione di quel silenzio.Questa Enciclica ha avuto il coraggio di riporre dinanzi agli occhi credenti di tutti i cristiani specialmente le realtà ultime perché le meditassero con assiduità e profondità nuove. È stato osservato che la Spe salvi debba essere intesa in modo singolare come un segno della preoccupazione che Benedetto XVI ha per la crisi culturale, etica e religiosa che attanaglia l’Europa: un problema colossale per la Chiesa, sia a motivo di questa stessa policrisi, sia per quello che l’Europa ha rappresentato e rappresenta per il cristianesimo.Può darsi che si debba dar ragione Lévinas quando afferma: «Il problema dell’avvenire dell’Europa è […] il problema dell’avvenire di tutta la terra, e di tutta l’umanità». O può darsi che si debba dissentire da questa sua affermazione, ma non a cuor leggero e, peraltro, non senza considerare, di fatto, che l’Europa è una questione cristiana.Benedetto XVI, con la Spe salvi, ha voluto guardare in faccia la crisi di speranza in cui è caduta l’Europa. Il Sinodo dei vescovi sull’Europa, svoltosi dal 10 al 23 ottobre 1999, aveva diagnosticato la vastità e la profondità di tale crisi. Benedetto XVI ha voluto indicare nella speranza la medicina per guarire l’uomo immelanconito del nostro tempo. Intanto, non sarebbe poca cosa se dei cristiani che oggi stanno passando sul ponte di due secoli si potrà dirà che sono stati uomini di speranza alla scuola di Benedetto XVI che – sulla scia di Giovanni XXIII, Paolo VI e Giovanni Paolo II – è maestro di speranza. Sotto un certo aspetto, questo è il massimo del servizio della Parola, dacché la speranza definisce il cristianesimo.Cinque anni fa, infatti, il Papa ci ha richiamati a meditare sull’essenza della vita cristiana, poiché «è solo la speranza che ci fa propriamente cristiani» (S. Agostino, De Civitate Dei, 6, 9,5). E la speranza può esprimere da sola tutto l’essere cristiano poiché i discepoli di Cristo sono «quelli che sperano» (cfr. 1Ts 4,13). Benedetto ci spinge a un atto di coraggio grandioso perché proposto in un tempo in cui la cultura, con le sue molte suggestioni, crea solo un’attesa, disabitata dalla speranza. Ma attendere senza sapere chi e che cosa è vano.
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