martedì 27 novembre 2012
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Quanto lontana è Roma dalla Nigeria delle stragi dei cristiani, quanto dal Libano, ulti­mo avamposto di convivenza tra fedi e cul­ture prima della Siria della guerra civile? Molto lontana, si direbbe, Roma, che è una capitale di Occidente; ancora più lontana, potrebbe pensa­re chi ha assistito alla ordinazione di sei nuovi car­dinali, sabato, nella magnificenza di San Pietro.
Ma guardando quei sei uomini rivestiti di por­pora si è visto che uno è nigeriano, un altro è il patriarca maronita del Libano, un altro ancora tornerà presto in Colombia, uno dei cuori del dolore e della speranza del Sud America. Si po­trebbe dire allora che il Papa manda uomini suoi, fidati, negli angoli più travagliati del pianeta; ma in realtà in questo invio c’è ben più che una se­lezione di 'osservatori', come la farebbe l’Onu. L’aveva annunciato lo stesso Benedetto XVI chiu­dendo il Sinodo, il 27 ottobre, il senso di questo 'piccolo Concistoro': io ho voluto, aveva detto, mostrare che 'la Chiesa è Chiesa di tutti i popo-­li, parla tutte le lingue, è sempre Chiesa di Pen­tecoste'. E dunque quelle sei porpore mandate in terre remote sembrano un respiro grande, profondo, della Chiesa universale; che alza la te­sta, e guarda più lontano.
Ma, dicevamo, non sembra sideralmente 'altra' la pace della basilica di San Pietro, da quella città del nord della Nigeria, Jaji, dove in due attentati kamikaze sono morti l’altroieri undici cristiani protestanti, appena usciti dalla funzione dome­nicale? Che ha a che fare un Concistoro che col­ma San Pietro del suo rosso porpora, con la pol­vere e il sangue di un Paese dove dal 2009, se­condo Human Rights Watch, sono stati uccisi da­gli integralisti islamici tremila cristiani?
Il sangue, il colore del sangue è il legame che tie­ne avvinti i nuovi e vecchi cardinali a terre a noi sconosciute e lontane. Non sono, questi, ge­nerali spediti a presidiare posizioni su un fron­te militare. Sono di più: uomini chiamati, ha ri­cordato loro espressamente il Papa, a com­portarsi 'con fortezza, fino all’effusione del san­gue', per l’incremento della fede e del popolo di Dio. Usque ad effusionem sanguinis . E non deve essere sembrato un modo di dire al car­dinale John Olorunfemi Onaiyekan, arcivesco­vo di Abuja, in Nigeria; e nemmeno a chi do­mani tornerà in Libano, al centro di un Medio Oriente oppresso dall’odio.
Per noi che viviamo, sì, impoveriti, allarmati, ras­segnati, e però in pace, è difficile immaginare co­me appena oltre i confini d’Europa testimonia­re Cristo possa significare dare la vita. E tuttavia il Papa in chiusura del Sinodo, dopo avere mol­to ascoltato anche di persecuzioni e dolore, ave­va detto: «È stato per me consolante e incorag­giante vedere qui lo specchio della Chiesa uni­versale con le sue sofferenze, minacce, pericoli e gioie... Abbiamo sentito come la Chiesa anche oggi cresce, vive».
Cresce. Vive. Comunque. Perché è da quasi due millenni che nella Chiesa si dice, con Tertullia­no, sanguis martyrum, semen Christianorum, il sangue dei martiri è seme di cristiani. Nemme­no la morte è, in uno sguardo autenticamente cri­stiano, sconfitta definitiva, speranza annichilita. Non in quel regno, che «non è di quaggiù», co­me Gesù spiega all’allibito Pilato. Un concetto, questo, quasi incomprensibile agli uomini. Tanto che gli stessi Apostoli, all’Ascen­sione, ostinati ancora chiedevano a Cristo se e­ra quello, finalmente, il tempo in cui avrebbe ri­costituito il regno davidico, il regno di Israele – lo ha ricordato proprio il Papa ai nuovi cardina­li, in Concistoro. E tuttavia Cristo, promesso lo Spirito, mandò i suoi. Vasi di creta, come og­gi questi nuovi princi­pi della Chiesa; invia­ti per il mondo, tra i popoli, lontano, nella babele di lingue sco­nosciute. Come il re­spiro più grande di u­na Chiesa senza con­fini. Vasi di creta, con dentro un non misu­rabile tesoro.
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