sabato 4 febbraio 2017
Dalla «Lettera collettiva dell’episcopato dell’Italia meridionale» di 69 anni fa, alla più recente denuncia della corruzione e il malaffare fatta da papa Francesco, preoccupazione sempre viva
La Chiesa e il Mezzogiorno: storia di impegno e vicinanza
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«Chiesa e lavoro. Quale futuro per i giovani nel Sud?». È il titolo del convegno delle conferenze episcopali del meridione (Campania, Basilicata, Calabria, Puglia, Sicilia e Sardegna) che si tiene a Napoli l’8 e il 9 febbraio. Le finalità e i temi dell’iniziativa, uno dei molti segni dell’attenzione della Chiesa per il Sud, saranno presentati oggi in conferenza stampa dal cardinale Crescenzio Sepe, arcivescovo di Napoli. L’iniziativa è locale, ma accanto ai Pastori delle sei regioni meridionali al convegno saranno presenti i vertici della Chiesa italiana, il cardinale Angelo Bagnasco e l’arcivescovo Nunzio Galantino, rispettivamente Presidente e Segretario generale della Cei.

«In quest’ora di gravi trepidazioni, di violenti contrasti e di decisive battaglie, mentre uomini di tutte le tendenze puntano il loro sguardo sul Mezzogiorno d’Italia (...) noi arcivescovi e vescovi dell’Italia meridionale...» L’incipit tradisce gli anni, ma la solennità del tono lascia capire quale e quanta urgenza vi fosse dietro un testo che, pagando il poco dazio richiesto allora alla cronaca, passava subito alla storia; e non solo per l’importanza e lo spessore del contenuto, ma per quelle firme, 73 vescovi, due prelati e tre abati, poste a garanzia di un documento finalmente collettivo, affidato sì nella stesura, a un leader del tempo, l’arcivescovo di Reggio Calabria, Antonio Lanza, ma segno di una volontà e di un sentire comune. Qualcosa di molto vicino a un’unità che sul versante Chiesa-società, nel Mezzogiorno non è stata mai scontata.

Datata 25 gennaio 1948, la 'Lettera collettiva dell’episcopato dell’Italia meridionale su: i problemi del Mezzogiorno' aprì il lungo corso degli interventi della Chiesa sulla realtà della parte più povera del Paese. Nello stesso anno l’Italia si dava la Carta costituzionale. I cantieri della ricostruzione, con la guerra appena alle spalle, si aprivano sulle strade ma anche nelle aule e in tutti quei luoghi della cultura e del sapere dove i segni del progresso davano alla ricostruzione la forma più nobile di rinascita. Una distinzione sottile che non riguardava però una metà del Paese al quale non era certamente bastato il tratto unitario, iniziato quasi novant’anni anni prima, per liberarsi almeno di qualcuno dei suoi mali antichi: la miseria, la corruzione, in tutte le sue forme, la criminalità, l’analfabetismo; e con il lavoro e le infrastrutture visti come traguardi di mondi lontani.

I termini della «questione meridionale», erano quindi già tutti presenti e ognuno di essi minava a fondo, fino talvolta a distorcerla verso elementi di superstizione e vera e propria magia – come testimoniato largamente dagli studi di Gabriele De Rosa – la religiosità di un popolo sul quale la Chiesa, invece, faceva largo affidamento. Un segno furono anche i molti vescovi provenienti dal Nord messi a capo di diocesi meridionali. Vista dalla parte della Chiesa, l’arretratezza finiva per tarpare le ali anche a una crescita più armonica della propria comunità. La 'lettera', in uno dei suoi passaggi più innovativi, metteva su carta una condizione che creava innanzitutto inquietudini 'ad intra' sulla purezza del sentimento religioso, tant’è – si affermava – che, di fronte a «forme parassitarie e superstiziose, lo stesso vizio, osa, a volte, porsi sotto le ali della religione e del culto».

Spianato il terreno dagli equivoci di una contaminazione, restava la visione spettrale di un Mezzogiorno cosparso di una povertà che arrivava ad uniformare e quasi omologare il panorama complessivo. Terreni e ancora terreni, coltivabili e no, dai quali si ricavava ricchezza per pochi e vite di stenti, e miseria in abbondanza per i più. Erano stati proprio i problemi della terra, e la vita grama di coloni, braccianti, i feudi del latifondo, a scuotere in maniera 'collettiva' i vescovi del mezzogiorno. La spinta decisiva venne dalla « XXI Settimana sociale dei cattolici», tenuta l’anno prima a Napoli e su un tema che non lasciava scorciatoie: «I problemi della terra e del lavoro nella dottrina sociale della Chiesa».

Anche questa era stata una strada a lungo preparata, e alla quale aveva dato un contributo forte e originale don Luigi Sturzo. Al prete di Caltagirone riuscì di mettere al servizio della «questione meridionale», due – apparentemente – opposte direttive del magistero papale sull’impegno sociale dei cattolici: il «Non expedit» di Pio IX e le indicazioni della «Rerum novarum» di Leone XIII che, all’inizio del nuovo secolo, diedero forma e nuova sostanza alla dottrina sociale della Chiesa. Il divieto imposto ai cattolici di partecipare alle elezioni politiche fu visto da don Sturzo (ma non solo) come un’opportunità favorevole anche per il clero locale, per sottrarsi a forme di vecchio clientelismo. Sul terreno parzialmente bonificato dal disimpegno finì per avere maggior presa il clima della 'Rerum novarum'.

La 'Lettera collettiva' fu in questo senso un punto di arrivo, anche perché rendeva ragione dell’impegno isolato, ma di grande prospettiva, di vescovi – come per esempio Nicola Monterisi – per i quali i problemi sociali non erano una cosa a parte dell’azione pastorale delle chiese locali. Nel quarantotto il Concilio Vaticano II era ancora lontano ma il timbro pastorale di quella 'Lettera' ne anticipava quantomeno i toni. A richiamarli fortemente, anche nella forma di un linguaggio nuovo («la questione meridionale è questione di Chiesa e posta anche alla Chiesa») e nel nesso tra evangelizzazione e promozione umana, fu il commento ufficiale che i vescovi italiani, nel ventennale del documento e dunque negli anni immediatamente successivi alla chiusura del Vaticano II, affidarono all’arcivescovo di Lecce, Michele Mincuzzi. Si voltava pagina, nel senso di una più forte compromissione e vicinanza della Chiesa con il suo popolo e, nel caso del Mezzogiorno, con un popolo vessato da molti problemi e tenuto fuori, anche per qualche precedente silenzio della Chiesa, dai circuiti di sviluppo e di progresso già innescati nel resto del Paese.

Neppure negli anni del boom economico, i mitici Sessanta, il divario tra le due Italie si è fatto più leggero. Anzi. Al Mezzogiorno è toccato di pagare larghe quote di un benessere che non lo riguardava da vicino. La 'Questione', col tempo, ha cambiato l’ordine dei fattori, ma non il risultato: niente più 'patti agrari' e lotte per le terre, ma uno dopo l’altro, pur con la nascita di organismi di sostegno – primo fra tutte la Cassa per il Mezzogiorno – i fallimenti di industrie che, in cambio delle molte illusioni, hanno poi lasciato la realtà di una devastazione e di un impoverimento del suolo. Aggiungendosi ad altre 'calamità' come la disoccupazione, la malavita organizzata e le forme di corruzione, tuttora di ogni tipo; senza contare la cronica carenza di infrastrutture e di servizi, a partire da una sanità che incoraggia sempre più i 'viaggi della speranza' altrove per l’Italia o per il mondo.

E la Chiesa? Il Mezzogiorno aveva cambiato pelle sotto i suoi occhi; e una formula più di ogni altra metteva a fuoco la nuova condizione: quella della 'modernità senza sviluppo' che rivestiva il Sud della patina falsa di un benessere di facciata, privo del fondamento di un’economia salda e che quindi esponeva tutta l’area alle insidie nuove di un consumismo esasperato. La corsa ai consumi, mentre contribuiva a dilapidare le residue risorse, erodeva anche i pilastri di una cultura di vita modellata largamente dall’aspetto religioso. Veniva meno, in questo campo, la trasmissione naturale della fede e si apriva, per gli operatori pastorali, la difficile prospettiva di un Mezzogiorno come terra di nuova evangelizzazione e di vera e propria missione. Pur cambiando volto e riferimenti, l’antica 'questione' non scompariva certo dall’orizzonte della Chiesa meridionale; e anzi ne diventava il tema più dibattuto, mobilitando Pastori e studiosi, diocesi e centri universitari e, in prima linea, i numerosi istituti teologici dell’Italia meridionale.

Anche tra i vescovi, dopo gli anni dei Lanza, dei Monterisi, dello stesso Mincuzzi, padre spirituale di don Tonino Bello, si formò un nuovo nucleo di pastori particolarmente attenti al tema Mezzogiorno, come Nicodemo e Motolese, i cardinali Ursi a Napoli e Pappalardo a Palermo, l’arcivescovo Sorrentino a Reggio Calabria. Tutti vescovi meridionali ma ognuno di essi al centro di un’opera di largo respiro: era l’intera Chiesa italiana, ora, a prendersi carico, nel suo insieme, di una questione che non riguardava solo più un’area ma tutto il Paese. A sancire significativamente questo cambio di passo, un altro documento dei vescovi italiani dell’ottobre ottantanove: 'Sviluppo nella solidarietà: Chiesa italiana e mezzogiorno'. Per la prima volta si rendeva esplicito, ponendo l’affermazione quasi a titolo di tutto il documento, che «Il Paese non crescerà se non insieme».

Si esprimeva l’intera Chiesa italiana e solenne era anche il mandato per quel documento, sollecitato già dal larghissimo spazio che i problemi del Mezzogiorno conquistarono all’interno del primo Convegno ecclesiale nazionale su «Evangelizzazione e promozione umana» nel 76, e 'rafforzato' nel clima del successivo Convegno di Loreto nell’ottantacinque su 'Riconciliazione cristiana e comunità degli uomini', quando alla Chiesa italiana venne chiesto un impegno deciso e visibile nella realtà sociale del Paese.

Non più quindi solo un impegno collettivo ma corale, di tutta la Chiesa sulla spinta dell’incessante magistero di Giovanni Paolo II, sia attraverso i suoi numerosi e prolungati viaggi pastorali nelle regioni e nelle città meridionali che nei discorsi per le «Visite ad limina» degli episcopati meridionali. E con la memoria di quel drammatico e solenne 'Basta!' gridato in faccia ai mafiosi nel viaggio in Sicilia, ad Agrigento, a sottolineare la forza dei gesti: come quello che, con non minore efficacia, replicò Papa Francesco a Cassano Jonio, nel giugno di tre anni fa, e poi a Napoli nella memorabile visita in cui si scagliò a suo modo (la «corruzione spuzza») contro il malaffare e ogni forma di violenza organizzata. I pastori e accanto ad essi, a rafforzarne la voce, i papi, Wojtyla e Bergoglio, ma anche Benedetto il quale si recò a Bari, per il Congresso eucaristico nazionale, appena quaranta giorni dopo la sua elezione, prima di visitare poi Lametia Terme, Il brindisino, Cagliari, Napoli e Pompei.

E proprio da Napoli, nei giorni prossimi, la Chiesa italiana riprenderà il discorso mai interrotto del suo impegno per il Mezzogiorno. Come a dire, e a ribadire, che il Sud non può essere, tantomeno per la Chiesa, un problema a sé.

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