La chiamano «infodemia» (e continuano ad alimentarla)
mercoledì 4 marzo 2020

Caro direttore,
la chiamano infodemia. Il sovraccarico di notizie vere, incerte, false. Ne parlano pure i veri pazienti zero, vale a dire i giornali e le tv, che con paginate e quintali di programmi inseguono da tempo l’ultimo dato aggiornato dei contagiati, cosa che non hanno mai fatto per l’influenza o altre malattie con esiti anche numericamente molto più letali. E non c’è da stupirsi. «Il bene non fa storia», soleva ripetere Enzo Biagi. Per sua natura, il titolaccio 'Il virus non si ferma' attira assai di più di 'La situazione è buona'.


Ai conduttori di tg e talk show non pare vero di potere dare prima degli altri una notizia drammatica. Per poi fare la morale ai responsabili delle istituzioni per aver comunicato male. Il che spesso è pure vero, perché tutti pensano che comunicare non sia un mestiere complesso, fatto di studi e di pratica sul campo. E quando va bene chiamano accanto a sé degli improvvisati e sedicenti comunicatori, magari abili nel fare rumore, ma inconsapevoli delle conseguenze dei gesti e delle parole consigliate. Come l’epidemia del Covid-19, l’infodemia scoppia in un momento del Paese in cui vengono al pettine tutti insieme i nodi provocati dall’incompetenza, dalla faciloneria, e dall’improvvisazione che sono arrivati al potere.

Un movimento di odio verso una casta politica imbelle, ha però finito per creare una nuova casta (anche) di volenterosi senza titoli sufficienti per ricoprire ruoli ai vertici di uno Stato, ruoli che in altri Paesi richiedono un lungo curriculum con almeno un paio di master. Se si considera poi che la comunicazione è sempre stata presa sottogamba, si capisce perché al momento dell’esplosione dell’infodemia anche le migliori intenzioni finiscano per spalancare le strade dell’inferno.

È un problema che in Italia viene da lontano. Non ci sono mai state vere e proprie scuole di comunicazione, mentre nelle università questa materia è quasi sempre trattata in forma troppo teorica. Solo da poco tempo ci sono adeguati Istituti di Comunicazione post-diploma. E pensare che la comunicazione è come la chirurgia: si va sul sicuro se si è nelle mani di un professionista che si è occupato di migliaia di casi, e possibilmente abbia lavorato nei più accreditati ospedali del mondo. Per questo più che ogni altra cosa conta la gavetta, l’esperienza, i casi affrontati e risolti nelle redazioni e nelle agenzie frequentate.

Per ulteriore paradosso, nella Pubblica Amministrazione se ne occupano troppo di sovente dirigenti con tutt’altre esperienze e studi alle spalle, che poi spesso delegano la scelta di una campagna istituzionale al capo ufficio acquisti, del tutto inesperto nel giudicare l’acquisto di un bene immateriale come la comunicazione. Nell’era dei social network e degli algoritmi, poi, avviene che una pletora di sedicenti social media manager sia convinta che un alto numero di impression e la massima audience raggiunte siano l’obiettivo primario, e così lo sono amministratori e politici, che nel momento della crisi da coronavirus hanno strabordato da reti e giornali, per poi spaventarsi degli effetti di un allarmismo che sta creando danni enormi all’economia. Se è vero che le crisi servono anche per migliorarsi, abbiamo davvero una grande opportunità: ricominciare dalla rivalutazione della competenza, del merito, dei titoli e dell’esperienza. Una cosuccia da niente. Ma l’alternativa è finire in un burrone per aver messo alla guida chi non ha nemmeno la patente.
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