Gli orrori e la gelida confessione di un assassino
mercoledì 24 gennaio 2018

Ogni volta che succede una strage – e siamo purtroppo ancora a ridosso dell’ennesima strage a Kabul – mi torna nel cervello, e ci resta a lungo, la risposta che ricevetti a una mia domanda sulla colpa e l’innocenza. Il lettore che mi segue con pazienza sa a cosa mi riferisco. Avevo di fronte a me un personaggio condannato all’ergastolo per strage, poi assolto, poi di nuovo processato…, e in quel momento agli arresti domiciliari, a Brindisi.

Lo chiamo "personaggio" perché è un personaggio, appartiene cioè alla grande cronaca, ma anche perché è un 'mio' personaggio, protagonista di un mio libro. Il protagonista l’avevo costruito sulla base dei suoi scritti, saggi, discorsi, dichiarazioni. E poiché i suoi scritti indirizzavano alla strage, io indirizzavo alla strage il loro autore. Per coerenza. Ne facevo cioè un colpevole. Non era un’accusa giudiziaria, lo sentivo bene, era un’accusa letteraria, una costruzione romanzesca.

Volevo dire che aveva teorizzato e amato il delitto. Ma uno può teorizzare un delitto, e non commetterlo. Dostoevskij, per esempio. Questo personaggio si offese per il ritratto che ne avevo fatto e mi piantò un processo. Condannato all’ergastolo, perse i diritti civili e il processo non ebbe luogo. Assolto, chiese un incontro, in cui potesse difendersi. Ci andai. La mia ultima domanda fu: «Lei ha teorizzato la strage, l’ha dichiarata utile alla storia, meritevole e buona. La strage è stata compiuta. Si sente innocente?». Lui mi passò alle spalle, ero seduto a un tavolo, si chinò sul mio orecchio destro, e scandì lentamente queste parole, che mi tornano in mente ogni volta che succede una strage: «È innocente non colui che è incapace di peccare, ma colui che pecca senza rimorsi».

È una frase che spiega perché si fanno stragi a catena, e perché gli stragisti non si pentono mai. Il nostro terrorismo rosso e nero è tutto qui dentro. Le imprese dei taleban. E, ora, dell’Isis. Le esecuzioni singole e multiple. Le bombe. L’eliminazione degli ostaggi. L’inseguimento delle vittime. È tutto qui: peccano senza rimorsi. Noi cristiani siamo sotto l’influenza di una parola potente e condizionante: «Chi è senza peccato, scagli la prima pietra». Non piovvero pietre. Ma se avesse detto: «Chi è senza rimorsi…», le pietre sarebbero piovute. Sto guardando le foto di quest’ultima strage, vedo l’esterno dell’Hotel Intercontinental di Kabul, un ospite scappa calandosi dalle finestre dell’ultimo piano.

I kamikaze sono in frenetica azione. Aprono le camere una per una, cercano gli stranieri, gli sparano. La condizione per non avere rimorsi è questa: che siano stranieri. Basta che non sia come te, lo puoi uccidere senza rimorsi. Agli albori della nostra civiltà, nelle poleis greche, valeva il contrario: lo straniero va ospitato, trattato bene, con rispetto e con onore. Era una civiltà, norme e valori erano oggettivi. Tu eri innocente se non peccavi, e la tua morale doveva concordare con la morale di tutti. Qual è infatti il pericolo del sentirti innocente solo perché non hai rimorsi? Di rimettere la tua innocenza a te stesso, di autoassolverti, di stabilire che il tuo dovere morale non sta nel non peccare, ma nel non pentirti. È in questa mancanza di senso oggettivo dell’uomo che la vita perde valore. Un kamikaze sale i gradini di corsa, incontra un ospite e gli punta il kalahsnikov, quello urla di essere afgano, il kamikaze lo lascia perdere e va in cerca di altri.

Teorizzando l’innocenza come mancanza di rimorsi, quel mio terrorista esaltava il super-peccato, il peccato che non si pente. «È innocente non colui che è incapace di peccare»: sì, invece, quello è innocente. «Ma colui che pecca»: no, quello è un peccatore, e se uccide è un assassino. «Senza rimorsi»: quello è un super-peccatore, e se ha ucciso è un superassassino.

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