sabato 17 novembre 2012
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La Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza sancisce a chiare lettere il principio della «non discriminazione».  Tutti gli Stati sottoscriventi, Italia compresa, nel rispetto di questo sacrosanto precetto, assumono l’obbligo di abolire ogni ostacolo alla piena fruizione dei diritti previsti dalla Convenzione per tutti i minorenni, a prescindere da ogni tipo di appartenenza: etnica, sociale, religiosa, politica o economica. In altre parole, l’Italia è tenuta a combattere la discriminazione in ogni sua espressione, con i mezzi propri di un Paese democratico, e s’incarica di estirpare dal terreno giuridico e sociale un male che non smette di rivelarci, tutt’oggi, quanto sia ancora radicato. Come può convivere dunque nella nostra legislazione, accanto al principio di non discriminazione, una legge come quella sulla cittadinanza che ne viola palesemente la sostanza? L’acquisizione della cittadinanza in Italia è disciplinata dalla legge n. 91 del 1992, secondo cui è cittadino per nascita chi nasce da cittadini italiani, mentre prevede che un minorenne straniero divenga cittadino italiano soltanto qualora i genitori lo siano precedentemente divenuti. Norma vecchia, antica, basata sul principio dello ius sanguinis , che esclude dal godimento della cittadinanza tutti quei minori che nascono in Italia da genitori (regolarmente residenti) che tuttavia all’anagrafe risultano stranieri. Il minorenne nato in Italia da genitori stranieri può richiedere la cittadinanza al compimento del diciottesimo anno di età ed eventualmente acquisirla, purché la richiesta si risolva entro un anno. Periodo che talvolta, data la natura kafkiana della nostra burocrazia, costituisce un vero e proprio muro tra l’italianità di fatto e quella di diritto. Poi ci sono le seconde generazioni, ovvero tutti quei figli nati e/o cresciuti nel nostro Paese da genitori immigrati.A oggi, sono circa il 60% degli oltre 500mila minorenni non comunitari presenti in Italia. Non era facile prevedere che nel giro di due decadi l’Italia, tradizionale porto di migranti, sarebbe diventata così massicciamente frontiera di speranza per migliaia d’immigrati. E proprio perché i numeri dell’immigrazione sono cresciuti e continuano a crescere, ci ritroviamo di fronte a una necessità di rinnovamento giuridico che risponda al disagio di un bambino (o adolescente) al quale la legge vigente – mentre offre diritti basilari come quello all’istruzione e alla salute – sottrae il diritto forse più edificante per lo spirito di un cittadino: quello di potersi definire tale.Il danno sociale derivante da una simile condizione di 'diversità', in un contesto così delicato come l’infanzia e l’adolescenza, non è affatto minore di quello psicologico. È nel periodo della minore età che si coltiva il senso di appartenenza a una comunità, e guai a permettere che questo sentimento sia contaminato dal disagio di un’esclusione tutt’altro che formale.Viene da chiedersi come si possa pretendere che la scuola sia motore primo di socializzazione e originario momento d’integrazione, se il 7,9% della popolazione scolastica minorenne continua a essere una presenza 'straniera'. Viene da chiedersi ancora in che modo il nostro sistema educativo possa celebrare i valori della civiltà e promuovere l’uguaglianza e l’inclusione sociale senza incappare in una imbarazzante contraddizione. È proprio per sciogliere il nodo di una legge sopravanzata dai tempi che occorre riformularla. A nostro parere, prefigurando la possibilità che il minorenne straniero nato in Italia acquisisca automaticamente la cittadinanza italiana. Al Parlamento l’ardua sentenza.
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