martedì 17 giugno 2014
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Un passo avanti e due indietro. Da sempre la crisi in Medio Oriente ha abituato gli osservatori a sbalzi in avanti, accelerazioni e docce fredde. E il sequestro dei tre ragazzi israeliani in Cisgiordania non fa altro che intorbidire una situazione che di chiaro, anche negli ultimi tempi, aveva già ben poco. Una crisi che giunge nel momento di massima divisione tra il fronte palestinese e quello guidato dal premier israeliano Benjamin Netanyahu. Dopo la formazione del governo di unità nazionale e il riavvicinamento dell’Olp ad Hamas, arrivato dopo la fine ufficiale e inconcludente del negoziato di pace, la risposta israeliana non si era fatta attendere con l’aumento dei progetti di insediamento nelle colonie. E con il principale mediatore, gli Stati Uniti, messo in mezzo a uno scontro di livelli elevatissimi. Ora la cattura degli studenti rabbinici da parte di «terroristi», come li ha definiti il premier israeliano, che accusa Abu Mazen di aver in qualche modo favorito la situazione, rimescola ulteriormente le carte. Ingarbugliando lo scenario. Abu Mazen ha offerto collaborazione mentre Netanyahu imputa l’azione ad Hamas. Il tentativo di dividere è chiaro, così come l’imbarazzo del presidente dell’Anp reduce, insieme all’israeliano Peres, dal significativo gesto di speranza costituito dalla preghiera in Vaticano proposta da papa Francesco. Il timore che il sequestro si trasformi in un triplice “caso Shalit” (il caporale prigioniero a lungo a Gaza e liberato in cambio di detenuti palestinesi) è fin troppo chiaro a Netanyahu. Così come Abu Mazen ha ben presente il rischio che la riunificazione palestinese, dopo quasi otto anni di guerra intestina, possa crollare sotto i colpi dell’operazione che Israele ha lanciato per la ricerca dei rapiti. Questo lascia intuire che la paternità del sequestro sia terza, opera cioè di chi probabilmente vuole ottenere entrambi i risultati: riaprire la ferita interpalestinese e allontanare ulteriormente le parti del negoziato. Per questo il tempo è fondamentale: depotenziare la crisi in tempi rapidi è l’unica risposta che sia l’Anp (e Hamas probabilmente) sia Israele possono dare.
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