giovedì 23 dicembre 2010
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Sarà un Natale di poche luci e tanta Luce per i cristiani dell’Iraq. Monsignor Louis Sako, arcivescovo caldeo di Kirkuk, lo ha già descritto: «Non ci sarà Babbo Natale per i bambini, non ci saranno cerimonie per gli auguri ufficiali con le autorità. Per la prima volta a sette anni dall’inizio della guerra abbiamo deciso di non celebrare messe durante la notte ma solo alla luce del giorno e con la massima sobrietà. Per questioni di sicurezza le chiese non avranno addobbi né decorazioni. Abbiamo deciso di non fare festa». Questo a Baghdad come a Kirkuk, a Bassora come a Mosul.È l’inevitabile conseguenza di un’ondata di violenza che per i cristiani non conosce tregua ma, al contrario, s’inasprisce di anno in anno. Il 31 ottobre, pochi giorni dopo un minaccioso "avvertimento" di al-Qaeda, 57 fedeli e prelati sono stati assassinati nell’attacco alla cattedrale siro-cattolica di Baghdad. Non un episodio isolato ma il primo capitolo di una nuova strategia. Lo conferma il messaggio recapitato ieri dai terroristi all’arcivescovado di Kirkuk: i cristiani iracheni pagheranno "un prezzo altissimo" se alcune donne musulmane egiziane, che secondo loro sarebbero state convertite a forza e poi rinchiuse in un monastero copto in Egitto, non saranno liberate.Si tratta chiaramente di un pretesto, il tentativo di "nobilitare" agli occhi dei musulmani iracheni, con motivazioni pseudo-religiose, una persecuzione che nasconde ben più terrene questioni di potere. Poche luci natalizie, quindi, per il Natale degli iracheni. Ma forte, sempre più forte, la Luce di una testimonianza che è di fede e civiltà allo stesso tempo. La mai conclusa pacificazione dell’Iraq dalla guerra cominciata nel 2003 ha dimezzato (da 800mila a poco più di 400mila persone) la comunità cristiana irachena. Chi ha avuto il coraggio di resistere sente forte la missione di testimoniare la propria identità religiosa in una situazione dove la tripartizione di fatto del Paese (il Nord curdo, il Sud sciita, il centro sunnita con l’eccezione della capitale) inevitabilmente spinge la minoranza cristiana verso l’emarginazione. Ma non c’è solo questo. I cristiani, come succede anche in altri Paesi del Medio Oriente, sono i grandi facilitatori della convivenza in Iraq. Sono gli unici capaci di vivere con i sunniti come con gli sciiti, tra i monti del Kurdistan e nelle sabbie che danno verso il Golfo Persico. Anche questa è una buona ragione per perseguitarli, soprattutto se si ha in mente la spartizione del Paese e delle sue risorse. Ognuno dei tre grandi gruppi vuole il dominio esclusivo della propria "zona", un po’ come succede nelle guerre di mafia. Non a caso, negli ultimi tempi, c’è chi guarda con favore alla costituzione di un’enclave cristiana nel Nord dell’Iraq: una specie di riserva indiana che potrebbe, poi, essere facilmente strangolata ed estinta. Da questo punto di vista non rassicura la nascita, proprio nei giorni che dovrebbero essere gioiosi e che monsignor Sako ha invece definito "di tristezza e lutto perenne", di un Governo iracheno arrivato a nove mesi dalle elezioni politiche. È il secondo guidato dallo sciita Nur al Maliki e viene definito "di consenso nazionale". È in realtà il frutto dell’instabilità politica (Maliki resta premier pur avendo perso le elezioni di stretta misura), delle pressioni esterne (Siria, Arabia Saudita e Iran agiscono su uomini e partiti) e di una serie di compromessi anche dell’ultima ora.Senza una forte pressione internazionale, esercitata in primo luogo dagli Usa e dall’Europa, è difficile che un Governo tanto impegnato a nascere possa aiutare i cristiani a vivere.
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