Iper-solitudine periferica a Torino: sei anni di saluti a vuoto e poi...
venerdì 9 dicembre 2022

Gentile direttore,
dopo sei anni e qualche decina di saluti andati a vuoto la mia vicina di casa mi ha rivolto oggi la parola per la prima volta. Benvenuti nell'iper-solitudine periferica. Una massificazione che ci rende preda dell'ultimo populista che si aggira nella pianura della grande città. Gli spin doctor della politica hanno ampie prateria di consenso da esplorare quando siamo soli anche di fronte a un buongiorno senza replica. Qui anche la fede è un fatto prettamente individuale, si va in chiesa come dal medico o dallo psicologo, soli con i propri problemi, le proprie idee, avulsi dalla storia e dalla vita. Dopo la Messa nessuno ti chiede cosa hai pensato quando è morta quella ragazza di 18 anni. Che cosa ti ha suggerito la preghiera. Che cosa hai provato quando quella mamma aggrappata alla bara del marito gridava « Pasquale, guarda i bambini». Cosa c’entra il Vangelo con questo quartiere. Anche la predica sembra fatta apposta per anestetizzare più che per partecipare: standard come se fosse la stessa cosa vivere la fede a Mirafiori, in un sobborgo di Nairobi e al centro di Zurigo. Ma come si traduce qui quella Parola? La solitudine e l’isolamento stanno impoverendo tutti, come scrive Wislawa Szymborska, «siamo molto cortesi l’uno con l’altro, diciamo che è bello incontrarsi dopo anni. Ci fermiamo a metà frase, senza scampo sorridenti. La nostra gente non sa parlarsi». Poi dopo sei anni qualcosa accade, un fatto che è come una domanda a cui la vita risponde.

Fabrizio Floris


Anche un saluto cordiale, ripetuto e totalmente gratuito, cioè capace di stare a lungo senza risposta, è un modo – come suggerisce caldamente papa Francesco – per «avviare processi» dentro un tempo e dentro luoghi in cui troppi sono portati a occupare propri spazi e, quasi, a trincerarsi in essi. Lei, caro amico, ci dice che è difficile ma accade, e con lei e come lei lo testimoniano tutti coloro che nella società civile come nella comunità ecclesiale, in mezzo ad autoreferenzialità grandi e grosse e a piccole speranze, sanno ascoltare e vedere, e parlano per farsi capire e per incamminare sé stessi e altri, insieme, e resistono alla tentazione di pontificare per prendere tempo e anestetizzare cuori e anime. Abbiamo scampo dall’individualismo trionfante o rassegnato, e con pazienza e visione possiamo accettarlo e percorrerlo. Più invecchio, più capisco che quando «la vita risponde» è Dio-Amore che soffia e sono l’uomo e la donna che ritrovano respiro.

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