La Festa della Liberazione è una ricorrenza sempre nuova, sempre attuale, anche dopo ottant’anni. Ogni totalitarismo, di qualsiasi colore esso sia, è infatti la negazione di quell’umano che ha come fondamento la libertà di dire chi si è con le parole, con le azioni, con le scelte. Per questo la Liberazione va sempre celebrata: perché è una festa grazie alla quale, ogni anno, abbiamo l’occasione di riscoprire la nostra umanità, la nostra essenza di donne e uomini liberi. Ma il fascismo esercita ancora un grande fascino su molte persone, moltissime delle quali giovani o giovanissime. Me ne accorgo non solo dai fatti di cronaca, ma anche tutti i giorni, tra i banchi di scuola. È un fenomeno diffuso per tutta la penisola, da Sud a Nord, da Est a Ovest. Quando sento dire che “in Italia ci vorrebbe Mussolini di nuovo al governo” mi viene da ridere. Perché non Napoleone, o Giulio Cesare, o Alessandro Magno, o Ottaviano Augusto? Il passato è passato, ogni ipotesi di copia e incolla è semplicemente surreale. Mi viene da sorridere, ma non troppo, anche quando sento dire che “il Duce ha fatto pure cose buone”. Ma certo che le ha fatte; com’è possibile non combinare nulla di positivo in vent’anni di governo? Anche sotto il regime sovietico la metropolitana di Mosca fu sviluppata in maniera molto efficiente. Ma giustificare lo stalinismo o il fascismo sulla base delle linee metropolitane o della bonifica dell’Agro Pontino è pura follia.
Se un padre padrone reclude in casa sua moglie e i suoi figli, è violento e oppressivo con loro, ma, essendo un ottimo cuoco, serve loro piatti prelibati, chi oserebbe dire che è un buon padre perché fa anche cose buone? Quando invece sento evocare il nazismo e il fascismo come soluzioni forti, che potrebbero risolvere molti problemi, mi preoccupo. Come si può evocare convintamente regimi che hanno cancellato dignità e umanità in nome di una migliore incisività di governo, peraltro soltanto presunta? Poi però, per onestà, sono costretto a fermarmi e a pensare a me stesso adolescente, tra la fine delle medie e i primi anni delle superiori. Devo confessarlo: anche io, allora, inneggiavo al duce e al fascismo. Perché? Perché ero fragile. Mi sentivo spesso inadeguato al mondo, non all’altezza delle situazioni e degli altri. Vissi un periodo di chiusura in casa, che i miei migliori amici seppero rompere. Subivo piccoli soprusi; forse non si può parlare di bullismo, ma di certo venivo preso di mira da quelli che vedevo come i più forti, quelli del cui gruppo io non avrei mai fatto parte. Così inneggiavo al fascismo, un regime duro e forte, come io non ero e avrei voluto essere. Come ne sono uscito? Grazie a due persone. La prima è un prof di lettere che, in una discussione in classe, mi chiese perché mi dichiarassi neofascista. Io rimasi in silenzio: non sapevo cosa rispondere.
Quel prof non mi urlò contro, non perse la pazienza, non usò la sua autorità schiacciandomi con la forza (quello lo facevano i fascisti), ma mi sfidò sul terreno tipico della democrazia: il pensiero critico, la discussione, il rendere ragione di ciò che si afferma. Ne uscii sconfitto: dovetti fare i conti col fatto che il mio fascismo era una maschera inconsistente. La seconda persona fu l’allora presidente delle Acli della mia città, che mi invitò a partecipare a un viaggio in Polonia organizzato proprio dalla sua associazione. Fu ad Auschwitz che cambiò tutto, per sempre, perché lì vidi l’orrore: i mucchi di capelli, le valigie, le protesi strappate ai deportati. Le camere a gas, i forni crematori. Ne uscii annichilito. Quelli erano gli alleati del duce e del fascismo. Il fascismo aveva introdotto anche in Italia le aberranti leggi razziali. Il fascismo aveva spedito lì tante persone.
Dopo Auschwitz mi vergognai delle mie affermazioni passate e imparai a pensare mille volte e a studiare bene prima di parlare. Perché le parole possono ferire, possono calpestare la dignità dei vivi e dei morti. Cosa ho imparato da tutto questo? Che il neofascismo tra i giovani non si può combattere solo con la repressione. Se gridi a un adolescente che le sue idee sono aberranti e anticostituzionali quello fa peggio e le afferma, per reazione, con ancora più forza. Ma il neofascismo non si combatte neanche strumentalizzando il 25 aprile, trasformando la festa della Liberazione in una festa di parte. Il 25 aprile è una ricorrenza fondativa di tutti: ricorda la fine della barbarie, l’inizio della democrazia. I partigiani erano di ogni colore, non solo comunisti. Sarebbe bello vedere in piazza più bandiere tricolori che bandiere di partito; sarebbe bello rendere il 25 aprile una festa inclusiva, dove ritrovarci tutti sui valori essenziali del nostro vivere insieme. Ridurre il 25 aprile a una mera clava contro il governo di turno è strumentale, divisivo, del tutto inutile.
Il neofascismo si combatte in altri modi: ne suggerisco due. Il primo è la diffusione del senso critico, che si fonda sul dibattito, sull’esporsi con le proprie idee, sulla capacità di argomentare. In questo la scuola, chiamata a essere meno nozionistica e più capace di far crescere sensibilità e competenze, ha un ruolo fondamentale. Il secondo modo è raccontare storie, perché le storie generano empatia e consapevolezza. Sono storie le testimonianze e sono storie i libri di scuola e i saggi. Sono storie i documentari e sono storie i romanzi. Noi esseri umani siamo intessuti di narrazione fin dalle origini: una narrazione appassionata e insieme intellettualmente onesta, non può che far crescere e aiutarci in tempi, come i nostri, in cui certe forme di barbarie sembrano fare nuovamente capolino.