venerdì 2 settembre 2011
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Non è la riunione degli amici della Libia, dice il ministro degli Esteri della Russia. Non siamo qui per fare del commercio, dice invece il portavoce del Consiglio nazionale di transizione (Cnt). Queste affermazioni – come molte altre uscite dalla Conferenza di Parigi o in arrivo dai 12 capi di Stato, 17 capi di governo e 20 ministri che vi hanno partecipato – vanno prese con un certo beneficio d’inventario. Perché proprio la conta degli amici e l’inevitabile computo degli interessi occupa in questi giorni le cancellerie di tutto il mondo.Non c’è da stupirsi. Ci sono Paesi che hanno impegnato uomini, fondi e mezzi militari fin da marzo (Usa, Francia, Gran Bretagna, Qatar). Altri che si sono mossi in ritardo (Italia) ma l’hanno pur fatto, altri ancora che si sono tenuti fuori (Germania) e forse oggi si mangiano le mani. Istituzioni come l’Unione Europea possono sbloccare con un tratto di penna fondi imponenti e ieri, a Parigi, hanno reso a 28 società libiche (energia, trasporti, finanza) la libertà di operare che era stata a lungo revocata dalle sanzioni. E poi ci sono quelli che rincorrono la storia come la Russia, che solo ieri ha riconosciuto il Consiglio, e la Cina, che ha almeno cominciato a elogiarlo. O, peggio, l’Algeria, che ha aspettato la Conferenza di Parigi per salutare, ultimo Paese dell’Africa del Nord, il cambio di regime in Libia.Quindi ha forse ragione il presidente Sarkozy, che ha voluto la Conferenza, l’ha voluta a Parigi, e ai critici ha risposto così: «È troppo presto? È da marzo che ce lo dicono». Sarkozy si sente tra i vincitori, forse si crede il vero vincitore. Non a caso circola da giorni la voce, sempre smentita e mai archiviata, di un impegno del Cnt a fornire alla Francia il 35% del petrolio estratto in Libia. Dovrà ben presto capire, però, che ora si apre una partita del tutto nuova, in cui gli eventuali "meriti" acquisiti sul campo vanno mediati con le inevitabili realtà della politica.Partiamo dai grandi perdenti, Russia, Cina e Germania. La Russia è un pezzo da novanta nel mercato mondiale del petrolio, potrà essere esclusa dalla partita libica? La Cina è penetrata a fondo in Africa e provvede a quasi un quarto della stentata crescita globale: si potrà negarle il petrolio necessario alla sua macchina industriale? La Germania è il pilastro di ogni politica europea, la Francia oserà dirle di no? E l’Italia ritardataria? Siamo a un passo dalla Libia, siamo lo sbocco naturale delle sue esportazioni, nessuno potrà ignorarlo. E poi: lenti forse nel far decollare i caccia, ma rapidi nel ricostruire un’intesa economica che già con Gheddafi si era fatta intensa e proficua per entrambi i Paesi. Lo testimonia l’accordo siglato pochi giorni fa, quindi prima della conferenza di ieri, con il Cnt a Milano.Il vincitore dei vincitori potrebbe però essere l’America di Barack Obama. Più discreti del solito nelle operazioni militari, ma decisivi come sempre quanto a mezzi e intelligence, gli Usa hanno una carta in più da giocare: il rapporto strettissimo con i Paesi che affiancano la Libia, l’Egitto (che ha riconosciuto presto il Cnt) e la Tunisia, ammirevole nell’accoglienza ai profughi della Libia. Resta da sciogliere il nodo importante della missione Onu. Sarebbe necessaria in un Paese che, Gheddafi o no, ancora rischia di frammentarsi sotto la spinta degli interessi tribali e di faide fermentate in 42 anni di dittatura. Ban Ki-Moon, il segretario generale dell’Onu, ha detto a Parigi di voler chiedere al Consiglio di Sicurezza il via libera per una missione «nel più breve tempo possibile». Ma le nazioni che hanno investito nella cacciata di Gheddafi vorranno l’Onu di mezzo? E i nuovi padroni del Paese accetteranno la tutela? Dalla risposta a queste domande cominceremo a capire qualcosa della nuova Libia. In primo luogo, se l’intervento militare e gli attuali consessi diplomatici rispondono al fondamentale richiamo della Chiesa, libertà e benessere per un popolo troppo a lungo oppresso dalla dittatura, o a una frusta logica di speculazione, se non di spoliazione.
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