lunedì 15 dicembre 2008
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Rajesh Digal ha professato la sua fede fino all’effusione del sangue. Il 26 agosto scorso non ha ceduto alle minacce di un gruppo di inferociti nazionalisti indù ed è stato lapidato e ucciso davanti alla moglie, che soltanto in questi giorni ha potuto raccontare l’orrore, una volta lasciato il campo profughi dove si era rifugiata. Se la violenza è cessata e i riflettori sull’Orissa si sono spenti - mentre l’attenzione si è focalizzata, naturalmente, sulla minaccia terroristica dopo gli attacchi a Mumbai -, la situazione nello Stato indiano resta pericolosamente sospesa. Decine di migliaia di cristiani sono dovuti fuggire dalle proprie case date alle fiamme e vivono in tendopoli d’emergenza, l’accesso alle quali è vietato per chiunque. Nel distretto di Kandhamal, epicentro del pogrom, anche i villaggi dove si sono registrate le peggiori persecuzioni rimangono inaccessibili a osservatori esterni e ogni ipotesi di un ritorno alla normalità un lontano miraggio. Inoltre, i membri del Vishwa Hindu Parishad e del Rashtriya Swayamsevak Sangh, formazioni radicali nazionaliste, tra le principali responsabili della caccia a cattolici ed evangelici, hanno già programmato manifestazioni per il 25 dicembre - singolare coincidenza con il Natale - allo scopo di protestare contro la presunta lentezza delle indagini sull’uccisione di Swami Laxamananda Saraswati, probabilmente colpito dalla guerriglia maoista, che fece da detonatore alla persecuzione. Già è stato ben spiegato perché la presenza cristiana è mal sopportata dagli ambienti conservatori indù - gli ideali di fratellanza minano alla base le discriminazioni tra caste e lo sfruttamento dei gruppi marginali. Ci si deve ora interrogare sulla volontà dei vertici politici di porre fine a una campagna per terrorizzare, se non eliminare fisicamente, chi rifiuta di abbandonare la Chiesa. La polizia, in agosto, si è allontanata o è rimasta a guardare; in seguito, non ha voluto raccogliere le denunce o le ha subito messe a tacere; i colpevoli degli assalti e degli omicidi, come i loro mandanti, in gran parte noti, non sono stati perseguiti. Gli esponenti politici locali (espressione della maggioranza indù) hanno manifestato una solidarietà di facciata e le inchieste parlamentari si sono presto arenate. Il dispiegamento tardivo delle forze dell’ordine non ha evitato altri episodi di violenza, mentre i responsabili della vile aggressione a una suora sono stati fermati soltanto perché la religiosa ha coraggiosamente raccontato alle televisioni la sua terribile vicenda. All’avvicinarsi del giorno della Natività cresce il timore che si scatenino altri raid contro i pochi edifici di culto e le poche scuole confessionali finora risparmiati. Gli appelli e le preghiere che si sono levati nel mondo hanno certo rotto il silenzio e impedito che la strage si prolungasse. Questo è però il momento della vigilanza. E anche degli "avvertimenti". Camera e Senato italiani hanno già preso posizione, il governo ha espresso le sue preoccupazioni. Ma oggi - a livello nazionale ed europeo - sarebbe auspicabile che si lanciasse un segnale forte a New Delhi. All’India non è mancata la solidarietà quando - il mese scorso - è stata colpita al cuore nella sua capitale finanziaria. La leadership del Paese deve sapere che non mancheranno gesti altrettanto espliciti qualora non si difendesse una minoranza vulnerabile, da tempo nel mirino di frange intolleranti le cui intenzioni sono ampiamente annunciate. In agosto poteva forse valere la giustificazione, per le autorità centrali, dell’esplosione inaspettata. Adesso nessun alibi avrebbe legittimo corso. Natale deve passare nel vero rispetto della libertà religiosa. In attesa di un ristabilimento di accettabili condizioni di ordinata e sicura convivenza per i cristiani del Paese.
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