mercoledì 22 gennaio 2025
Nel vuoto di modelli cui i ragazzi possano ispirarsi, il bisogno di un discorso nuovo sulla paternità dopo il patriarcato. Perché per entrare in relazione con qualcuno devi prima essere qualcuno
Il maschile è in crisi? Mostriamo come essere uomini «pieni di grazia»

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Si intitola «Pieno di Grazia – La sfida cristiana per il maschio del nostro tempo” (Edizioni San Paolo, pp. 191, euro 18) il nuovo libro di monsignor Riccardo Mensuali dedicato alla definizione di un modello di maschile ispirato all’antropologia cristiana. L’autore, membro della Pontificia Accademia per la Vita, anticipa in questo intervento alcuni dei temi affrontati.


Negli Stati Uniti sono ormai diversi gli “studi sul maschile” e nel suo libro Of boys and men Richard Reeves si pone, fin dal titolo, una domanda scomoda: «Perché il maschio moderno fa fatica?». Racconta che quando rivelava di star scrivendo «di uomini e di ragazzi», era facile che molte mamme gli confidassero di esser più preoccupate del futuro dei figli maschi che non delle femmine, e che le ragazze non nascondessero certa frustrazione per lo stato di scarsa profondità in cui versano i loro coetanei, eleggibili per eventuali relazioni. Reeves scrive da americano e per i lettori degli Stati Uniti, citando espliciti dati che mostrano la condizione di disagio di tanti uomini dell’America contemporanea. Ma sottolinea qualcosa che è vero anche da noi: c’è un divario enorme tra la coscienza che in privato abbiamo della vita degli uomini delle nostre città e la timidezza del discorso pubblico.

A sinistra si percepisce il timore che parlare di maschi sia tradire le donne e la loro causa; a meno che non se ne parli male, fedeli in eterno all’equazione “maschio uguale patriarcato”. A destra si avverte immediatamente un vago senso di colpa per modelli ormai impresentabili o una sensazione di impotenza, per non saper trovare parole che spieghino con serenità che “differenza sessuale” non equivale a maschilismo. Eppure, nelle conversazioni private, emerge un moderno vuoto di modelli maschili, mentre, nel vissuto quotidiano, tanti ragazzi giovani sono e si sentono migliori, più seri, dolci e profondi di quei maschi che i telegiornali e i social presentano di tanto in tanto. La legge italiana sulla violenza contro le donne è buona, e tutti dobbiamo impegnarci perché la sua applicazione mostri sempre più un efficace effetto di deterrenza e prevenzione. Qualche segnale positivo, in tal senso, si nota. Rabbia e qualche saggia considerazione emergono davanti all’ennesima violenza contro le donne. Ma sono emozioni che durano quanto un fiammifero. Come quando ci si stupisce di quanto i testi della musica trap siano lo specchio limpido di ambienti dove invece di limpido e pulito non c’è nulla: droga, malessere, vuoto, violenza e sessismo. Ambienti cantati da donne e uomini, unisex.

Ma basta andarsi a rileggere Il maschilismo orecchiabile, dove Riccardo Burgazzi ricostruisce accenti più o meno sessisti nelle canzoni italiane degli ultimi cinquant’anni, per scoprire che la musica parla di come siamo. E non è che in Verdi o Puccini si trovino uomini tutti angelicati. Si trovano, nell’arte, i maschi come sono. Come avrebbero dovuto essere, spetta a noi arrivarci, anche attraverso un’educazione sentimentale. Più che eclissarli, i testi e le parole di certa musica, bisognerebbe invitare i loro autori a discuterli, a confrontarsi, a comprenderne origine e direzione, per suscitare e far emergere un pensiero e una riflessione condivisa. Per valutare quanto riescano a denunciare e quanto rischino di provocare. Il dialogo, in fondo, è quello che più manca in questa stagione di banali e sterili contrapposizioni, dove per debolezza identitaria si rifiuta il lento confronto e la pacata discussione perché non si sa elaborare un pensiero o, in fondo, si teme di non averne uno.

A Roma rifiutarono un confronto anche con Benedetto XVI. Non per censura – sia il Papa che i cantanti famosi hanno i loro liberi palchi – ma perché non sappiamo sostenere un dialogo, accontentandoci di una imprudente superficialità. Da almeno più di un secolo un discorso pubblico e una missione hanno accompagnato la doverosa emancipazione della donna da posizioni subalterne e opprimenti. Lo abbiamo chiamato femminismo, anche se il termine è scivoloso e ambiguo. Si è trattato, e si tratta ancora, di una visione chiara che sostiene ogni ragazza e ogni donna nella coscienza di come si sta al mondo e del riconoscimento di diritti che ha contribuito a conquiste condivise, seppur altre manchino all’appello, se solo pensiamo al gender gap nel mondo del lavoro.

Era il 1973 quando chiesi a mio padre perché in Israele il capo del Governo mandava in tv sempre e solo la moglie, Golda Meir, primo ministro del governo israeliano. Avevo sette anni e quella fu l’unica domanda che mi parve sensata. Nessun bambino direbbe mai una ingenuità del genere, nel 2024. E a proposito dell’uomo, che discorso abbiamo proposto? La paternità, tanto quanto la maternità, spaventa e preoccupa troppi giovani uomini che sanno altrettanto bene che diventare padri è diventare adulti, e per sempre. Se quattro mamme si incontrano sulle panchine dei giardini a guardar giocare la prole, è scontato che parleranno, dopo pochi minuti, di figli. Se sulle stesse panchine si trovano quattro padri, è più difficile e raro che parlino spontaneamente di paternità. Cominceranno dal lavoro, dallo sport, per instaurare qualche complicità.

Tra maschi, parlare dei figli non si faceva, non c’è un modello condiviso. Eppure tanti giovani uomini cominciano a farlo: cercare un discorso nuovo e moderno su cosa sia la paternità, dopo il patriarcato e in tempi difficili per la responsabilità di diventare e essere genitori. Se è scontato che una donna, nelle relazioni, mostri prudenza e cerchi segnali chiari di una maschilità affidabile e pacifica, meno scontato ma altrettanto vero è che anche tanti ragazzi hanno timore dei rapporti con l’altro sesso. Perché, in fondo, per entrare in relazione con qualcuno, devi prima essere qualcuno. L’eccessiva fragilità, così come uno spappolamento identitario, blocca, intimidisce, o comunque non fa scorgere nella dotazione “maschio” alcun orgoglio (altra parola ormai pericolosa). Come direbbe papa Francesco, troppi ragazzi rimangono a balconear, a guardare la vita dalla finestra. Il vuoto di modelli, la paura della parola “identità”, che non pare di moda in tempi di fluidità e incertezza interiori, non aiutano una persona del genere umano che, oggi, nasca maschio.

Luigi Zoja ha indagato, in Centauri e ne Il gesto di Ettore, le radici della violenza maschile. Ci ricorda che la “maschilità” dell’umano è un costrutto culturale, una capacità acquisita e antica di passare da semplice seminatore di geni a compagno fedele e padre amorevole di una prole per cui condividere le cure. Passaggio fondamentale per il genere umano. Con un problema, però, nient’affatto secondario o trascurabile: questo possibile buon uomo, “pieno di grazia”, può sempre regredire, se un pensiero e una cultura non sostengono e rinnovano il suo essere paterno, accudente, pacifico. Il vuoto, nel maschio, si tiene molto peggio che nella donna, o non si tiene affatto: al posto del vuoto appare il Centauro, mezzo uomo e mezzo animale, che nel mito greco narrato da Pindaro fu generato “senza charis”, senza grazia, senza amore.

Questi tempi di pericolosa fiducia nella forza, nelle armi, nella violenza sono un sintomo allarmante di un tragico possibile terreno di coltura di centauri imbestialiti. È possibile, allo stesso tempo, essere maschio forte, vigoroso, efficace ma anche “grazioso”, cortese e premuroso? Nei Vangeli c’è una maschilità prorompente e chiara, quella di Gesù. Che gli apostoli fecero un po’ fatica ad assumere, perché avevano altri modelli. L’uomo pieno di grazia non è solo possibile, è l’unica grande occasione perché anche la donna vinca nel profondo la sua battaglia: togliere terreno e fiato al centauro che è in ogni maschio e liberare in lui una virilità attraente, affidabile e mite.

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