Le quinte colonne Erdogan e Orbán sfida per l’Europa
sabato 14 maggio 2022

Viktor Orbán blocca le sanzioni Ue sul petrolio di Putin, Recep Tayyip Erdogan rincara la dose dicendo che l’adesione di Finlandia e Svezia alla Nato sarebbe un «errore» pari a quello, secondo la visione turca delle cose, dell’ingresso della Grecia nell’Alleanza: un veto bello e buono. In Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite passa, infine, una mozione per l’apertura di un’inchiesta della Commissione per i diritti umani sui crimini di guerra commessi da russi in Ucraina. Inchiesta che avrà, però, solo conseguenze politiche, se mai giungerà in porto, e che sarà sempre sub judice dei due alleati di ferro al Palazzo di Vetro: Pechino e Mosca. Resta complesso, come si vede anche da questi elementi, il quadro in cui dovrebbe maturare una soluzione negoziale dopo oltre due mesi e mezzo di guerra aperta in Ucraina, scatenata dall’invasione decisa al Cremlino e mentre scocca il tremilacinquesimo giorno dall’inizio della crisi (bellica) tra Mosca e Kiev. Si cerca la quadratura del cerchio: una fine delle ostilità che fermi misfatti e stragi e non confonda le responsabilità.

Ed è in questo quadro che un leader della Nato e aspirante (interessatissimo) mediatore tra i belligeranti come il presidente turco Erdogan tira il sasso nello stagno, mentre, da una parte, continua a comprare dagli Stati Uniti d’Ame- rica i micidiali aviogetti da guerra F-16 e, dall’altra parte, lucida le ogive degli altrettanto micidiali missili S-400 contrattati con Mosca. In pratica, ha concesso a Putin quella che in gergo tecnico si chiama backdoor, una porta di accesso ai sistemi d’arma della difesa occidentale. A mettere in fila i fatti, il reis di Ankara potrebbe essere considerato una “quinta colonna” nel cuore dell’Alleanza Atlantica. Al pari del premier ungherese Orbán che, prima, fa annacquare le sanzioni europee potenzialmente più efficaci e ottiene per sé proroghe e, poi, butta in aria il banco.

Facendosi forte di quella regola dell’unanimità (e dei sottili equilibri nel voto dei Paesi membri) che paralizza sempre più spesso l’Unione Europea quando ci sono decisioni fondamentali da assumere. Nonostante i lucidi progetti e i festosi proclami di rinnovamento del 9 maggio appena celebrato, infatti, la stessa Unione deve ancora cominciare a riformare almeno quella regola, per darsi una spinta decisa oltre la paralisi che l’affligge.

Perché il “tutto o niente” non funziona più, come ha spiegato Mario Draghi e ha ripetuto Ursula von der Leyen. Nei corridoi tirati a specchio del Cremlino qualcuno ieri giurava di avere visto spuntare un sorriso su quel filo di labbra che Vladimir Vladimirovic Putin tiene sempre serrate. Il divide et impera, in fondo, è latino come la radice del suo soprannome traslitterato in lingua slava: Cesare, Czar. Putin incassa l’ennesima frattura, l’ennesima presa di distanze con la forza imperante delle regole sancite dai patti che in Occidente, a differenza sua, ci si sente obbligati a rispettare.

Da tempo i “malware” che i suoi “troll” insinuano nella politica e nella società occidentale si sono fatti anche persona: politici amici, oligarchi cangianti e leader non sempre riconducibili a campi formalmente opposti al suo. Personalità, magari, democraticamente elette dal popolo, ma aiutate a diventare tali secondo un progetto avviato da tempo e che, pian piano, rivela le sue trame. Difficilmente individuabili al momento anche se, come racconta un proverbio, il disegno di un tappeto è indecifrabile solo se lo guardi dalla parte dei nodi, mentre se lo rovesci si manifesta in tutto il suo splendore. La pace comincia sempre da un armistizio. Ovvero da una tregua armata.

Che pian piano si disarma. Qui, al contrario, si continuano ad armare le opposte propagande, i giochi di potere, le trame e le disposizioni delle forze in campo. E si continua ad adattare lo sviluppo del massacro d’Ucraina alla caduta delle presunzioni (degli invasori) forse precipitosamente raccontati come un’«Armata rotta» e agli alti e bassi delle speranze di «riconquista», anche nel Donbass, degli aggrediti. E si moltiplicano le manovre oblique intorno al tavolo di un negoziato che stenta a stare in piedi. Meglio scompaginare i giochi delle “quinte colonne” e quelli, sporchi, dietro le quinte. Meglio, insomma, fare sul serio, meglio che gli europei facciano di tutto per indurre Mosca a fare sul serio. E non la guerra.

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