martedì 30 aprile 2013
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L’azienda avviata con sacrifici e fatica è costretta a chiudere, non ci sono i soldi per pagare i dipendenti, i debiti sovrastano la capacità di produrre utili. E, in molti casi, la trappola del silenzio, indotto magari dalla vergogna, paralizza molti imprenditori. Talvolta la disperazione può indurre persino a gesti estremi. Alcuni di questi imprenditori, però, si sono rivolti ad Avvenire dopo aver letto, venerdì scorso, la «Lettera a un aspirante suicida» (a fianco, uno stralcio della pagina, ndr), in cui Giovanni D’Alessandro si rivolgeva proprio a chi vive il dramma del lavoro perso o del fallimento di un sogno d’impresa: «Caro fratello che non vuoi più vivere, ti scrivo perché tu non ti tolga la vita». Pubblichiamo qui due testimonianze di fallimento, ma insieme di speranza che non muore, di volontà di reagire, invitando gli imprenditori che volessero condividere le difficoltà a raccontarci la loro storia, scrivendo all’indirizzo lettere@avvenire.it.
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