giovedì 13 febbraio 2014
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Caro direttore,ho atteso a lungo prima di scrivere, anche perché speravo di trovare in altri interventi di "Avvenire" sul film televisivo di Pupi Avati ("Un matrimonio") qualche sintonia con le impressioni che ho ricevuto. Perché io dall’autore di "Una sconfinata giovinezza", che nelle dichiarazioni ai media ha fatto sperare nella storia rappresentata quasi un modello per tante unioni fragili del giorno d’oggi, mi aspettavo molto di più. Non mancano certo aspetti positivi, dall’affetto solidale della famiglia allargata all’amicizia coltivata dalla prima giovinezza alla piena maturità, ma prevalgono le ombre e proprio nel rapporto uomo-donna, dove si gioca tutta la nostra umanità e si può passare dall’unione che supera ogni barriera (di educazione, di classe, di etnia ...) allo squallore della sola gratificazione dei sensi. Troppe le scene di sesso tra coppie più o meno regolari, utili a catturare l’audience, ma non a far capire la verità o non verità del loro amore. Anche perché nel film di coppie se ne formano tante, ma solo una fa sperare in una crescita gioiosa e feconda, mentre le altre o si perdono o si recuperano dopo incomprensioni e tradimenti o vivono in una grottesca mediocrità. La stessa coppia protagonista si innamora non si sa perché e si ritrova per l’intervento del figlio più che per una sua propria iniziativa. E che dire della festa del cinquantennio accompagnata in chiesa da una canzone cara ai protagonisti, ma senza alcun riferimento religioso e preceduta dalle parolacce del marito coinvolto in un incidente d’auto? Fa parte dello stile del regista per superare la commozione con il grottesco e l’ironia? La saluto cordialmente, assicurandole che questa mia critica non diminuisce l’apprezzamento e l’interesse per il giornale che leggiamo volentieri in famiglia.Maria Teresa Belardinelli, PaviaHo letto con interesse questa sua contro-critica, cara signora Belardinelli. E prendo atto con rispetto della sua argomentata delusione per l’ultima fatica televisiva di Pupi Avati. Ma stia tranquilla: non mi sfiora neanche per un momento il pensiero che la differenza tra il suo giudizio e quello che abbiamo espresso sulle nostre pagine possa essere un problema. Lei apprezza il nostro lavoro, noi apprezziamo sempre gli stimoli che ci arrivano, sui più diversi temi, dai nostri lettori. Detto questo, ciò che lei ha visto, l’ho visto anch’io. Ma con proporzioni diverse da quelle che lei delinea, e la mia conclusione è diversa: credo, infatti, che Avati abbia saputo raccontare con il garbo e lo sguardo profondo e nitido che lo contraddistinguono una storia familiare molto vera e coinvolgente, nella quale – proprio come nella realtà che sperimentiamo – non tutto è perfetto. Dove ci sono anche, in dosi più o meno omeopatiche, tutti gli ingredienti che lei ha annotato, ma c’è soprattutto un fulcro saldo e sempre ritrovato: la famiglia. La famiglia come luogo che genera, custodisce e moltiplica relazioni forti e scelte generose e accoglienti: dall’adozione di una bimba paraplegica, alla cura per la zia anziana e disabile, dalle parole giuste di una madre che aiuta un’amica a non abortire il proprio figlio e di un figlio che aiuta il proprio padre a ritrovarsi, alla schiva lungimiranza di un nonno che sa a chi destinare il frutto dei sacrifici della propria gioventù… Relazioni autentiche, capaci di reggere tanto all’impatto di dure prove e di improvvise fascinazioni quanto alla lenta e banale usura del tempo. Le dosi dell’impasto potevano essere diverse? Certo. Ma Avati è Avati, e in questa narrazione – decisamente controcorrente rispetto ai modelli sempre più spesso proposti da film e serie tv – il regista bolognese ha messo davvero molto di sé, della sua storia personale e familiare, della sua anima cristiana ed emiliana. Come fa spesso, si dirà. Certo, ma stavolta un po’ di più. E anche questa, a mio avviso, è una generosità da apprezzare. Spero che sia in tanti modi contagiosa.
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