martedì 15 maggio 2018
La presa del regime sui media è pervasiva e non ammette critiche, così come la religione sottoposta da sempre a molteplici limitazioni. Il Vietnam è prevalentemente buddista, ma il 10% è cattolico
Il turbo capitalismo in salsa (vetero) leninista
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Hanoi. Il granitico mausoleo con le spoglie di Ho Chi Minh si staglia superbo e solitario nella grande piazza Ba Dinh. A cadenza regolare il corpo imbalsamato del leader comunista viene trasferito a Mosca e sottoposto alle cure degli stessi specialisti che conservano la mummia di Lenin nella Piazza Rossa. A poca distanza c’è un altro Ho Chi Minh, questa volta di cera, seduto alla scrivania che occhieggia benevolo il visitatore in una delle sale del fastoso Museo della Guerra, tempio della memoria e dell’orgoglio di un Paese che nessuno è mai riuscito a domare. Ma non aspettatevi di ritrovare qui, nello sciame impazzito di scooter che hanno soppiantato le biciclette dei tempi coloniali, il Vietnam che per decenni l’Occidente ha cullato nella mente: quello di Dien Bien Phu, della Saigon di Graham Greene e del suo Quiet American, dell’offensiva del Tet, delle risaie, dell’Agente Orange, dei cunicoli sotterranei, della corrotta capitale del sud crocevia di soldati, di malaffare, del trionfale ingresso dei Viet Cong nel cuore della capitale, dell’ambasciatore americano che abbandona in elicottero la città con la bandiera a stelle e strisce sotto braccio mentre i carri armati del nord sfondano il cancello dell’ambasciata. Resta, quella sì, la contabilità di una guerra (la guerre d’agression, come recitano i cartigli del Museo) dal numero incalcolabile di vittime: i 58mila morti americani da una parte, i quasi tre milioni di vietnamiti, (del sud come del nord) dall’altra, le migliaia di morti e dispersi fra i boat-people che lasciavano il Sud unificato sotto la bandiera comunista. Ed è da quel comunismo vittorioso sotto la regia del generale Giap che s’insedia in tutto il Paese nel 1975, che ribattezza Saigon come Ho Chi Minh City e che cancella il passato coloniale che vogliamo partire. Domandandoci cosa rimane di quell’utopia e di quei giorni. Il risveglio dalla narcosi dell’idealizzazione occidentale è spiazzante.

A guidare il Paese, novantadue milioni di abitanti con un reddito pro capite di 3.700 dollari e un tasso di alfabetizzazione della popolazione adulta che supera il 90% è il settantaquattrenne Nguyen Phu Trong, studi di filologia e dottorato a Mosca, in carica dal 2011 e formalmente a capo del Politburo, perfetto esemplare di quel partito unico – ovviamente comunista – cui la Costituzione del 1992 assegna il ruolo guida nel Paese. Nguyen Thang, la mia guida, ha ventiquattro anni, due figli, parla un corretto inglese e di quell’epoca sa essenzialmente ciò che gli hanno insegnato a scuola. La prima menzogna che gli sento dire riguarda la libertà religiosa: «Il partito ha sempre concesso di poter professare la propria fede, anche durante gli anni della guerra civile». Non è vero. La presa del regime comunista sui giornali e sui media in genere è pervasiva e non ammette critiche, così come la religione – il Vietnam è prevalentemente buddista, ma il 10 per cento della popolazione è cattolico, articolato in tre arcidiocesi e 2.200 parrocchie – è sottoposta da sempre a molteplici limitazioni. «Ci sono almeno tre Vietnam – ammette Thang –: quello di Hanoi, comunista e tradizionalista, quello di Hue, conservatore e letterario e quello di Saigon, capitalista e progressista. Ma i tempi sono cambiati per tutti. All’epoca dei miei genitori un insegnante, un maestro di scuola era in cima alla piramide sociale. Oggi la stima converge verso la ricchezza, l’accumulo di denaro». Un vero e proprio tradimento se messo a confronto con quel confucianesimo rigoroso e probo, fatto di gesti semplici e di nessuna ostentazione di cui Hanoi un tempo andava fiera. Basta entrare nel Trang Tien Plaza, dove la gloriosa capitale del nord svela sotto lo sventolio delle bandiere rosse le vetrine di Versace e di Yves Saint Laurent, ovvero la svolta capitalista che il Vietnam, all’epoca della riunificazione classificato come uno fra i più poveri Paesi del mondo, ha consapevolmente imboccato. Lo conferma l’Asian Development Outlook reso pubblico il 30 aprile scorso, la festa nazionale che celebra la caduta di Saigon: «Nel 2018 – dice il direttore Eric Sidgwick – il prodotto interno lordo del Vietnam crescerà del 7,1%, per assestarsi nel 2019 al 6,9% a grazie all’impulso vigoroso dell’industria manifatturiera e all’export in grande espansione, mentre l’inflazione si stabilizzerà fra il 3,7 e il 4 per cento».

Le cifre sembrano dargli ragione. «Più del 70 per cento della popolazione vietnamita – recita un rapporto della Banca Mondiale – ha meno di trent’anni, è sfuggita alla morsa della povertà e almeno 14 milioni di persone appartengono ormai alla middle class, tre milioni dei quali si sono aggiunti nel triennio 2014-2016». Paragonata agli standard occidentali questa nuova classe di consumatori emergenti e “economically secure” si avvale di esili certezze: come quella di poter provvedere ai bisogni primari quotidiani, di poter risparmiare qualche dong (ne occorrono tra i 25 e i 27mila per fare un euro) e di spendere l’equivalente di 5 dollari e mezzo al giorno. Una piccola fortuna: con 10mila dong si compra una fetta di pane spalmata di uova fritte, con 20mila una grande ciotola di riso e una costoletta di maiale, ma lo street food in genere costa anche meno. «Un traguardo lusinghiero – spiega il magistrato dell’Alta Corte Trinh Ngoc Thúy –: a dimostrazione che la strada imboccata dal partito comunista era quella giusta. Entro il 2020 saremo sicuramente fra i Paesi in via di sviluppo più promettenti». Rimane un dubbio, forse del tutto accademico: si tratta di comunismo capitalista o di capitalismo comunista? L’unica certezza è l’abbandono dell’economia pianificata e della collettivizzazione delle campagne. Si fa fatica in città a scorgere qualche nón lá, il tipico copricapo vietnamita, ma basta spostarsi a Da Nang, a Hue a Hoi An, nel cuore del lungo serpentone indocinese per accorgersi che la musica cambia, insieme all’indole. C’è chi dice che sia il confucianesimo l’antidoto all’esuberanza della modernità e chi – come il dottor Loi, guida e interprete in quel crocevia fra la civiltà cham e quella viet, che si fondono nell’antica capitale imperiale – considera il riso la perfetta metafora del Vietnam: «Voi occidentali – dice Loi, nato nel Sud ma figlio di due combattenti Viet Cong – avete bisogno di spazio personale, di indipendenza, raramente usate il “noi” perché siete individualisti. I vietnamiti invece si muovono tutti insieme, come parte di un unico grande organismo. Come chicchi di riso, cioè, indistinguibili... ».

È vero, a cominciare da quel cognome, Nguyen, che accomuna decine di milioni di persone, per finire con quel marxismo-leninismo defluito nel 1945 nel Viet Minh rivoluzionario e quindi nel partito unico sostenuto da Mosca, che per anni ha continuato a sostenere il regime di Hanoi. Ma a dispetto della metafora i chicchi di riso non sono tutti uguali. È sufficiente alzare gli occhi fino alla cima dell’altissima Bitexco Financial Tower di Ho Chi Minh City o vagheggiare i tempi remoti passeggiando per la Rue Catinat, gli Champs Élysées ora punteggiati anche qui di vetrine di Vuitton, Cartier, Hermès per rendersi conto che Saigon, come continuano tutti a chiamarla, è rimasta la stessa, epicentro di quel kitsch vietnamita ammantato di affarismo e smania di progresso che nemmeno la capillare rieducazione comunista (le cifre sono incerte: da 200mila a un 1 milione e mezzo di persone mandate nei campi a ripulire le proprie ascendenze controrivoluzionarie) è riuscita a eliminare. Frenetici e gioiosi, lo sguardo di febbrile fiducia nelle proprie risorse, migliaia di giovani sciamano la sera per le vie del lusso di Saigon, eternamente indaffarati nei loro piccoli e grandi traffici. Il comunismo c’è ancora, pervasivo e onnipresente, ma si è abilmente mimetizzato, come le bisce d’acqua del Delta del Mekong.

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