Il Sudan dalla speranza al rischio di nuova Libia
martedì 11 giugno 2019

La destituzione dell’ex presidente Omar Hassan al-Bashir aveva fatto sperare in una graduale svolta democratica in Sudan. Ma gli sviluppi che sono avvenuti nel corso degli ultimi due mesi sono stati in netto contrasto con le aspettative della piazza in rivolta. La sensazione è che il Paese, paradossalmente, possa davvero cadere dalla padella alla brace. Infatti, la giunta al potere, il cosiddetto Consiglio militare di di transizione (Tmc), è sempre più determinata nel continuare ad affermare la volontà di mantenere una continuità di fondo nella gestione autoritaria del Paese, prefigurando uno scenario di profonda incertezza e instabilità prolungata. D’altronde, i militari hanno sempre avuto il coltello dalla parte del manico, disponendo del totale controllo degli apparati di sicurezza. E la cancellazione, da parte dei militari, di tutti gli accordi precedentemente raggiunti o in ancora in fase di negoziato con i civili ne è la conferma eclatante; con il risultato che ora sono davvero pochi a credere che si realizzerà quanto promesso dal Tmc: lo svolgimento tra 9 mesi di libere elezioni democratiche.

Sta di fatto che il Sudan è nel terrore da quando i corpi di sicurezza nazionale e le milizie paramilitari, tra cui spiccano i famigerati Janjaweed (Rapid Support Forces) tristemente noti per i crimini commessi nel Darfur, hanno aperto il fuoco sui civili nella capitale Khartum, a Omdurman, a Port Sudan e in altre città. Il bilancio delle vittime, secondo stime del Central Committee of Sudan Doctors, è di 113 morti e oltre 500 feriti, mentre i dati governativi parlano di circa 60 morti. Per non parlare delle innumerevoli sparizioni.

Purtroppo la comunità internazionale è divisa nel giudizio, come peraltro già avvenuto in passato. La dice lunga il veto imposto da Russia e Cina nei confronti di una risoluzione proposta da Regno Unito e Germania in seno al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che condannava l’uso eccessivo della forza da parte dei militari di Khartum nei confronti dei civili, invitando il Tmc e i civili a riprendere le fila del dialogo per assicurare una soluzione consensuale alla crisi. In conseguenza dell’impossibilità di adottare una posizione condivisa, alcuni Paesi europei – Belgio, Francia, Regno Unito, Italia, Polonia, Paesi Bassi e Svezia – hanno firmato una dichiarazione comune di condanna delle violenze, esprimendo preoccupazione per la decisione della giunta sudanese di porre fine ai negoziati con i civili e convocare elezioni unilateralmente. A questo punto l’incognita principale è rappresentata dallo scontro di potere tra l’esercito regolare sudanese e i corpi di sicurezza nazionale al cui interno militano i Janjaweed. Pare ormai certo che lo Stato Maggiore di Khartum si opponga al crescente strapotere esercitato da queste forze paramilitari. Da rilevare poi l’influenza dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi Uniti che sin dall’inizio della transizione hanno sostenuto a spada tratta la giunta sudanese, sia politicamente sia finanziariamente, assicurando l’erogazione totale di tre miliardi di dollari. La contropartita del Tmc è stata, naturalmente, la conferma dell’impegno militare sudanese nello Yemen, al fianco della coalizione arabo-sunnita.

L’unica vera nota positiva di queste ore è la decisione, da parte del Consiglio per la pace e la sicurezza dell’Unione Africana (UA), di sospendere la partecipazione del Sudan da tutte le sue attività. L’organismo della UA ha affermato in particolare la necessità di «un’autorità di transizione guidata da civili» come «unico modo per consentire al Sudan di uscire dall’attuale crisi».

È comunque evidente che la situazione sta implodendo pericolosamente perché la leadership della protesta sudanese minaccia di proseguire la propria campagna di disobbedienza civile, non solo fino a quando il Tmc non sarà rimosso, ma anche finché non si sarà fatta giustizia per le persone uccise dai corpi di sicurezza nazionale. Di questo passo, senza una seria mediazione internazionale, il Sudan rischia di replicare scenari già noti come quello libico, somalo e siriano. E questo è gravissimo.

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