mercoledì 24 gennaio 2024
L’Assemblea generale della confederazione discute dell’opportunità (e del merito) di una campagna sui temi del lavoro e più in generale del modello politico-sociale del Paese
Un comizio a Roma di Maurizio Landini, segretario generale della Cgil

Un comizio a Roma di Maurizio Landini, segretario generale della Cgil - Ansa

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Di deciso non c’è nulla. Di definito tanto meno. Ma nella Cgil si è avviata ufficialmente una riflessione sulla possibilità di aprire una grande stagione referendaria. Una mobilitazione lunga e ampia per cercare di incidere più profondamente sulle trasformazioni del mondo del lavoro e sulle politiche pubbliche. Tanto che sul tavolo c’è l’ipotesi di lanciare una grande raccolta firme per la richiesta di diversi referendum e/o proposte di legge di iniziativa popolare. A cominciare da quelli per contrastare la precarizzazione del lavoro – ad esempio abolendo alcune norme del Jobs act e sui contratti a termine – fino a predisporre già strumenti di risposta alle riforme istituzionali attualmente in discussione in Parlamento, come l’autonomia differenziata. In mezzo, fra le ipotesi tutte da verificare, altri temi come la difesa della sanità pubblica, la previdenza, il salario minimo e la rappresentanza sindacale.

Sono i temi che la Cgil di Maurizio Landini ha posto all’ordine del giorno nelle manifestazioni dello scorso anno – in particolare quella a Roma del 7 ottobre con un centinaio di associazioni laiche e cattoliche intitolata “La via maestra” – per riportare al centro il modello di democrazia disegnato nella Costituzione. La Carta fondamentale che ha alla base l’uguaglianza di tutte le persone, il lavoro e i diritti civili e sociali fondamentali che lo Stato ha il dovere primario di promuovere. E che invece ha sostenuto nei mesi scorsi il leader della Cgil «sono oggi spesso negati e che le politiche del Governo Meloni stanno mettendo definitivamente a rischio». Da qui la riflessione del sindacato di Corso d’Italia su come proseguire la mobilitazione dopo, appunto, le manifestazioni nazionali di piazza e gli scioperi generali articolati per territori che, però, non hanno prodotto cambiamenti sostanziali nelle politiche governative. Senza escludere nessuno strumento, referendum compresi.

La scorsa settimana, dunque, si è tenuto in Cgil un primo seminario di approfondimento sugli scenari italiani e internazionali con l’intervento, fra gli altri, dello storico e fondatore della Comunità di Sant’Egidio, Andrea Riccardi, la giornalista Lucia Annunziata e l’ex ministra ed esponente Pd Rosi Bindi. A seguire una riunione dell’Assemblea generale del sindacato che ha iniziato appunto a discutere dell’opportunità di avviare la campagna referendaria e legislativa. Discussione ancora aperta, su cui lo stesso Landini sta procedendo con estrema cautela, che verrà ripresa in un’ulteriore riunione dell’Assemblea generale del sindacato nei prossimi giorni.

I nodi su cui i dirigenti della Cgil si confrontano sono diversi. Riguardano il merito delle eventuali proposte su cui raccogliere le firme e poi sostenere, i quesiti da mettere a punto (operazione non semplice visto la natura abrogativa dei referendum), ma prima ancora l’opportunità di lanciare l’iniziativa e l’eventuale costruzione di un fronte ampio di sostegno. A partire dalle altre confederazioni, per allargarsi poi al mondo associativo laico e cattolico. Paradossalmente ma non troppo, risulterebbe più facile coinvolgere nell’impresa alcuni movimenti che non Cisl e Uil. Vero, infatti, che quest’ultima nella stagione più recente ha “sposato” la scelta conflittuale della Cgil nei confronti del Governo Meloni, ma associarsi anche nella campagna referendaria sarebbe altra cosa.

Certamente contraria sarebbe poi la Cisl che ha già marcato nettamente la distanza dalle strategie dei “cugini”, non condividendo né il giudizio negativo su tutte le politiche economiche dell’esecutivo né la scelta di proclamare gli scioperi generali dell’autunno scorso. La confederazione guidata da Luigi Sbarra sta infatti caratterizzandosi sempre più come organizzazione non solo autonoma e slegata dalle logiche degli schieramenti politici, ma soprattutto di natura spiccatamente contrattualista, che non esclude il conflitto ma lo subordina sempre e con ogni soggetto al negoziato. Un sindacato che, in questa fase, sta perseguendo come obiettivo prioritario e strategico quello di imprimere una svolta alla democrazia economica del nostro Paese tramite la promozione della partecipazione tra impresa e lavoratori a tutti i livelli: dalla compartecipazione agli utili fino all’ingresso di rappresentanti dei dipendenti nei Consigli di amministrazione. Non è detto, ovviamente, che l’iniziativa Cisl - arrivata alla Camera sotto forma di proposta di legge di iniziativa popolare e accolta con favore da diversi esponenti politici - produca risultati concreti effettivi (analoghe iniziative in passato sono fallite), ma certamente sarebbe contraddittorio e controproducente affiancarsi nel frattempo a un’iniziativa referendaria con finalità diverse.

Tornando alla Cgil, la “tentazione” di perseguire la via referendaria non è inedita in tempi recenti: già nel 2017, infatti, la confederazione aveva raccolto le firme su tre quesiti riguardanti i licenziamenti e l’articolo 18, il sistema dei voucher e sulla responsabilità dei committenti negli appalti. Solo gli ultimi due furono dichiarati ammissibili dalla Corte costituzionale. Ma poi non si andò alle urne perché nel frattempo le norme di cui si chiedeva l’abrogazione subirono modifiche significative ad opera del Governo, allora guidato da Paolo Gentiloni. Licenziamenti a parte - su cui ancora lunedì la Consulta si è pronunciata definendo non incostituzionale le previsioni in materia del Jobs act - la Cgil portò a casa, per quanto parziale, un risultato significativo quantomeno sul sistema dei voucher che fu fortemente limitato. Ma, proprio il Governo Meloni, nei mesi scorsi è tornato ad innalzare i limiti e allargare le possibilità di ricorrere al lavoro accessorio pagato attraverso buoni, nell’eterna altalena, in avanti e indietro, delle normative sul lavoro nel nostro Paese, sempre meno stabili e certe.

La discussione che si sta sviluppando in queste settimane nella Cgil, però, prende in esame materie che vanno anche oltre le normative previdenziali e del lavoro, spaziando in campi più larghi: dalla sanità agli assetti amministrativo-istituzionali. Di fatto una campagna propriamente “politica”, nel senso più largo possibile della parola, tesa a (ri)affermare un modello economico e sociale alternativo rispetto a quello perseguito dall’attuale maggioranza di destracentro. Nella riflessione del sindacato di Corso d’Italia pesano non solo il “dialogo tra sordi” con il Governo sul fisco come sulla previdenza ma più in generale la marginalizzazione del sindacato, quando non la sua stigmatizzazione come nel caso degli scioperi nei servizi pubblici, in una rinnovata disintermediazione da parte dell’esecutivo che tende a privilegiare il dialogo con altri interlocutori sociali e sindacali diversi rispetto a Cgil, Cisl e Uil.

Si ripropone così una nuova sfida della rappresentanza del Paese tra politica e sindacato, in parte simile a quella che all’epoca mise in rotta di collisione il Governo Renzi e lo stesso sindacato di Corso d’Italia. Ma questa volta non c’è solo il modello economico e di regolazione del lavoro più o meno liberista a dividere, ma un’opposta visione culturale e ideologica. E, in questo quadro, la Cgil di Maurizio Landini è convinta di rappresentare - di più e meglio rispetto alla maggioranza di destracentro – il Paese reale fatto di lavoratori che pagano le tasse e sostengono il bilancio pubblico, di cittadini che vogliono poter contare su una sanità pubblica e un welfare protettivo, di italiani che vogliono colmare le differenze Nord-Sud e non rischiare di ampliarle con l’autonomia differenziata. I referendum come un duello decisivo.




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