Selfie con donna travolta dal treno. (E chi non capisce)
lunedì 4 giugno 2018

La foto del ragazzo che riprende con un selfie la scena di una donna finita sotto un treno e rimasta con una gamba maciullata, stava ieri su tutti i giornali, e lo merita, perché è una foto a suo modo epocale: da sola dice tante cose su certi nostri ragazzi, ma anche sulla nostra epoca, sulla nostra civiltà, su di noi. Siamo nella stazione ferroviaria di Piacenza, a destra un gruppetto di cinque persone si prende cura di una signora stesa sui binari, appena investita da un treno che se n’è andato. Tutti guardano la signora, è lei la protagonista della scena. Sta male. Chissà quanto si lamenta. Ma a sinistra c’è un altro signore, un ragazzo sui vent’anni, lontano pochi metri, che volge le spalle alla scena, e guarda dalla parte opposta. Un indifferente, alla Moravia? Un estraneo, alla Camus? Non gl’interessa la disgrazia appena successa, pensa già ad altro?

Al contrario, gl’interessa moltissimo. Gl’interessa adesso e gl’interesserà domani, fra un mese, fra un anno. Sempre. È tutto preso da quella disgrazia, la sta guardando, la sta inquadrando. È per questo che volta le spalle, si sta facendo un selfie, vuole la propria faccia in primo piano e la donna con la gamba maciullata sullo sfondo, sta cercando l’inquadratura perché tutto si veda bene, la gamba tagliata, il sangue. C’è un’espressione del diritto che dice: "A futura memoria", e si riferisce al testimone che fa la sua dichiarazione oggi, perché sia usata domani, quando lui non ci sarà più. Così fanno i ragazzi col telefonino dotato di fotocamera, quando si scattano un selfie. Fra un giorno, un mese, un anno o fra vent’anni, quando saranno in vena di nostalgia e vorranno rivedere le tappe più importanti della loro vita, guarderanno le gallerie di selfie e ogni foto sarà un ricordo, un brivido, un’emozione.

Leggevo ieri su un giornale che mostrando il selfie di una disgrazia diranno: "Io ero qui, ma non è successo a me". Non è esattamente così, sarebbe una dichiarazione di estraneità, mentre il sentimento che guida questi ragazzi quando riguardano i selfie dei momenti clou della loro vita è proprio del tipo: "Una disgrazia enorme, e io c’ero". La grandezza della disgrazia successa là dove io ero, rende grande la mia vita. Un giorno in cui mi faccio un ritratto accanto a una donna che perde una gamba sotto un treno, è un giorno pieno, un grande giorno, sono grato alla vita. La fotocamera è lo strumento perfetto per darmi questa emozione. Potrei prendere appunti scritti, raccontare con la mia voce e registrare, ma non sarebbe la verità. Solo la foto è la verità. Il selfie è la testimonianza perfetta, perché mette la mia faccia sul luogo e sul fatto, documenta che io ero lì.

Bisogna dire che i telefonini hanno delle fotocamere perfette, perché non allargano i primi piani e non restringono gli sfondi: tutti i particolari restano riconoscibili. Inoltre, puoi condividere la scena con tutti i tuoi amici, in modo che anche loro possono testimoniare. Con un clic gli puoi mandare la foto ovunque siano. Guardandola, t’invidieranno. Vedranno che non sei dove c’è uno scontro di motorini, come ne succedono tanti. Sei in una stazione deserta dove un treno partendo ha tagliato una gamba a una signora. "Che fortunato" penseranno di te gli amici. Sei stato bravissimo, in un lampo hai tirato fuori il cellulare, ti sei messo di schiena, hai scattato. Sei grande. Un uomo moderno. E la polizia che vuole farti cancellare l’immagine dalla memoria del cellulare? Distruggerla, come se mai fosse esistita? Stupida. Non capisce.

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