giovedì 24 aprile 2014
​Rottura "culturale" e sviluppo. Con un uomo forte al potere.
di Claudio Monici
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In una saletta per le conferenze di un hotel della capitale ruandese, la coordinatrice di un progetto di sviluppo canadese, aiutata da una sequenza di diapositive, illustra il programma della sua organizzazione nel campo dell’istruzione scolastica e dice che, naturalmente, «i libri di testo per l’insegnamento elementare saranno in lingua inglese». Vent’anni fa, in Ruanda, c’erano due modi per dire la parola 'grazie': murakose,  nella lingua kinyarwanda, oppure, retaggio coloniale, merci, in francese. Oggi – vent’anni dopo il genocidio di 800mila tutsi e hutu moderati e i cento giorni di follia collettiva – è diventato d’obbligo pronunciarla con l’inglese thank you. Dal 2008 la legge stabilisce che nelle scuole primarie l’inglese è obbligatorio. La mutazione della piccola Repubblica africana avviene anche in questo modo, nella trasformazione linguistica, e quindi anche culturale. Perché così vuole un presidente che è nato all’estero, nell’anglofono Uganda, e che nella lingua francese vede fantasmi da scacciare, perché portatrice di memoria coloniale e politica. Ma in realtà, anche se i ruandesi adulti, per lo meno a Kigali, si sforzano di parlare inglese, per «stare al passo coi tempi e avere qualche problema in meno», nel Paese reale, appena fuori dalla capitale, in ambito rurale, nelle campagne verdeggianti che macchiano le colline, le comunità locali continuano a regolare in francese la loro vita e i loro commerci di tabacco, sorgo, mais e fagioli, tè e caffè.  Un paio d’anni fa, in un ufficio di progettazione a Singapore, è stato realizzato il «master plane» di Kigali. Un avveniristico Piano regolatore. Tanto per avere un’idea, nel cuore della capitale – un milione di abitanti cui ogni giorno si aggiungono 200mila pendolari – quel che ancora ricorda la città coloniale andrà a scomparire e al suo posto sorgeranno palazzi di venti piani. Come quello che è già previsto al prossimo cantiere e che una volta ultimato sarà a impatto zero. Autosufficiente e ecologico. Sprovvisto di climatizzazione elettrica, ma capace di un sistema di riscaldamento e refrigerazione garantiti da condotti e giardini pensili. Con la possibilità di riciclare il 40 per cento delle acque nere e pressoché autosufficiente per la fornitura elettrica. Sarà il quinto edificio del genere esistente in Africa. Per un Paese dove il peso dell’economia è sorretto dall’agricoltura, si apre un futuro costruito su milioni di metri cubi di cemento con la discreta, ma significativa mano cinese.  Di Kigali si parla oramai come della Singapore d’Africa. Nascono cantieri, nuove banche, già una ventina gli sportelli, e i grandi alberghi di classe internazionale sorgono come funghi. Come l’immenso «Marriott», in fase di ultimazione sulla collina che sovrasta il palazzo presidenziale: proprio per questo motivo, i progettisti sono stati costretti, si dice, a cancellare due piani per non incombere troppo sulla quotidianità dell’inquilino di fronte Paul Kagame. Uno sviluppo, quello della capitale ruandese, da una decina di anni in progressione, anche perché in questo piccolo Paese nel cuore dell’Africa, di soldi ne sono entrati parecchi, e non solo con il boom del turismo, che nel 2012 ha registrato 180mila presenze, in particolare per visitare il pianeta dei gorilla di montagna: con un ticket d’ingresso nella foresta di 750 dollari a persona. Ma la ricchezza è venuta anche con il 'transito' dei minerali pregiati provenienti, legalmente e illegalmente, dalla confinante terremotata regione dei Grandi laghi, dalla Repubblica democratica del Congo. A Kigali, basta chiedere alla prima persona che si incontra: senza esitazione saprà indicare dove si trova la «strada del coltan», minerale prezioso per la telefonia mobile proveniente – come altre pregiate materie prime, diamanti e oro – dalle miniere di Walikale. È la strada per l’aeroporto che corre sotto la grande antenna della Deutsche Welle, la Radio internazionale tedesca, che dal 1960 capta il segnale in arrivo da Colonia e poi lo irradia in tutto il continente africano con le sue trasmissioni in varie lingue. Se si guardano i vicini di casa come il Burundi – gravato da una situazione di insicurezza politica, militare, economica, tanto che Bujumbura si è dovuta vendere l’aereo presidenziale – o il Congo orientale di Goma e Bukavu – strangolato da gruppi armati, milizie tribali, violenza e povertà – il Ruanda assomiglia un piccolo paradiso. Se Stati Uniti, Gran Bretagna, Olanda e Svezia hanno chiuso i rubinetti della cooperazione, per i coinvolgimenti ruandesi nel vicino Congo, mentre Kigali ha scelto di fare a meno degli aiuti umanitari internazionali, la vita in Ruanda con i suoi 11 milioni e mezzo di abitanti, nel 1994 erano 7 milioni e mezzo, registra notevoli miglioramenti. Tanto che, oggi, nelle abitazioni dei villaggi di campagna, le persone non dormono più per terra, ma su materassi. E ha avuto successo la campagna di informazione condotta per «la protezione del piede da infezioni e malattie». Oggi quasi più nessuno cammina a piedi nudi.   L'assistenza sanitaria è una realtà per tutti. La mortalità infantile è stata assai ridotta. La diffusione dell’Aids, esploso sul finire degli anni Novanta come conseguenza degli stupri etnici del ’94, è stata arginata. Certo, sostenere che tutto funzioni e che modernità e sviluppo scalzeranno gli spettri di un possibile ritorno al passato delle divisioni etniche non si può giurarlo del tutto. La via della pacificazione nazionale la si sta praticando anche nelle aule scolastiche, dove un’ora di lezione al giorno è dedicata a spiegare alle nuove generazione che cosa è stata la politica etnica creata dal colonialismo con le conseguenti, devastanti tensioni tra tutsi e hutu.   Paul Kagame, nel suo secondo mandato da presidente, sta vivendo questo successo. Nel 2017 ci saranno le elezioni e già c’è chi ha sentore che l’uomo forte di Kigali modificherà la Costituzione per assicurarsi una terza opportunità di guidare il Ruanda. Su questo personaggio non mancano i giudizi negativi e le critiche. Ma sono soprattutto provenienti dai circuiti diplomatici internazionali, perché una vera opposizione politica a Kigali non esiste: «È a capo di un regime autoritario, che non tollera dissenso. Che ha avuto un coinvolgimento diretto nel caos congolese, sostenendo gruppi armati che usano bambini soldato». Kagame respinge ogni addebito come quello di essere, tra l’altro, la lunga mano coinvolta in una serie di omicidi di esiliati ruandesi in Sudafrica, Paese che ospita partiti politici ruandesi clandestini, e che sembrano avere motivazioni politiche. I più clamorosi sono i casi di un ex capo di stato maggiore e del capo della sicurezza nazionale Patrick Karegeya, assassinato nel gennaio scorso. Avversari politici, ma forse anche depositari di segreti inconfessabili.   Una fonte a Kigali che conosce bene il Ruanda e la sua classe politica, e che chiede di non essere identificata, osserva: «Un Paese in piena evoluzione, ma un popolo ancora non del tutto riconciliato. I problemi veri, però, al momento non stanno nelle tensioni tra tutsi e hutu. Nei centri nevralgici del potere e dell’amministrazione ruandese sono quasi tutti solo tutsi. Oggi i guai per Kagame nascono dentro la sua stessa cerchia di potere tutsi».

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