martedì 10 maggio 2022
Per il nuovo studio assistiamo alla progressiva devastazione della Terra e serve un’azione globale per gestire i beni comuni. Manca però l’attenzione alla dimensione umana e sociale
Il ritorno del «Club di Roma»: si fermi lo sterminio del futuro

Ansa/Afp

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Come una sorpresa, quasi un anacronismo dopo più di due anni di una pandemia che continua furiosamente a macinare vittime – sei milioni e 250mila, secondo le stime ufficiali, almeno il triplo considerando le morti in eccesso – e una guerra europea che ci ha costretto a sollevare il velo sull’incubo nucleare che avevamo addomesticato e quasi dimenticato, il Club di Roma fa il punto sui cinquant’anni trascorsi dalla pubblicazione del suo famoso rapporto The Limits to Growth, 'I limiti dello sviluppo'. Lo straordinario sforzo di analisi ecologica, economica e politica dei sistemi complessi, reso possibile nel 1972 dal modello World3 del System Dynamics Group del Mit, aveva spiegato che il progredire di una crescita esponenziale avrebbe portato al collasso il nostro mondo, fatto di risorse finite, sovrappopolato, inquinato e invaso da rifiuti, dove la natura è ridotta a materia da estrarre e capitalizzare come merce.

Questo avvertimento, che pure aveva scatenato il più grande dibattito sul futuro dell’umanità, è caduto nel vuoto. Abbiamo continuato ad assistere all’innalzamento delle temperature globali, allo scioglimento dei ghiacciai, alla progressiva desertificazione e deforestazione del pianeta, fino a trovarci assaliti da un virus frutto dell’erosione degli habitat naturali e dell’espansione delle megalopoli, e impigliati in un impensabile conflitto europeo e globale per l’accaparramento delle risorse. Forse è per questo motivo che il volume di prossima uscita Limits and Beyond: 50 years on from The Limits to Growth, what did we learn and what’s next? ('Limiti e oltre: a 50 anni dai Limiti dello sviluppo che cosa abbiano imparato e che cosa ci aspetta') fa l’effetto di un ritorno del rimosso, una statua del Commendatore che sale dal sottosuolo a chiedere conto, senza che noi nemmeno si riesca ad assumere la grazia tragica di un Don Giovanni mozartiano nel guardare in faccia la realtà che volevamo beffare.

Gli scenari sviluppati dallo studio condotto nel 1972 mostravano che, se le politiche globali non fossero radicalmente cambiate, il sistema economico e la civiltà industriale umana sarebbero giunti al tracollo entro i primi decenni del Ventunesimo secolo. Abbiamo perso cinquant’anni preziosi. La nostra specie che, con i suoi 7,9 miliardi di individui, rappresenta appena un novemillesimo della biomassa del pianeta, è riuscita a riempire il mondo di manufatti, al punto che il regno artificiale – fatto di cemento, mattoni, asfalto, plastica, automobili, cellulari, rifiuti e tutti gli altri infiniti oggetti prodotti dall’uomo – dal 2020 ha sorpassato il peso complessivo degli organismi creati dalla natura: animali, piante, funghi, virus, batteri. In poco più di cento anni, dall’inizio del Novecento, abbiamo più che dimezzato il numero di animali che popolavano il pianeta. Secondo la distribuzione della biomassa complessiva, il 70% di tutti gli uccelli del pianeta è ormai rappresentato dal pollame. Il 60% dei mammiferi è rappresentato dal bestiame: parola che già nel suo etimo contiene la riduzione a pluralità indistinta di corpi asserviti, nominati come bovini, suini, ovini, caprini, equini. Ciò che resta della biomassa dei mammiferi è formato per il 36% da noi esseri umani, e solo per il 4% dagli animali selvatici. Secondo il Global As- sessment Report on Biodiversity and Ecosystem Services dell’Ipbes, almeno un milione di specie viventi sono in via di estinzione, su una stima delle specie esistenti di circa 8 milioni. Sono le cifre di uno sterminio.

Mentre come termiti divoriamo ogni spazio, ogni diversità, ogni vita non codificata, ci viene ancora detto – in sostanza – che non c’è altro possibile sistema economico oltre a quello che ha fatto sì che, dall’inizio della pandemia, il patrimonio dei primi dieci miliardari del mondo aumentasse di 540 miliardi di dollari complessivi, prevalentemente nell’industria e nella produzione di farmaci; e ora è la volta del comparto bellico. Nel frattempo, il 7 dicembre 2020, l’acqua, il più vitale dei beni comuni, è stata quotata in Borsa a Chicago su iniziativa del potente fondo d’investimento speculativo mondiale Black-Rock. Siamo di fronte, privi di strumenti normativi e sanzionatori, alla progressiva devastazione del nostro mondo. Gli autori di Limits and Beyond affermano la necessità di un’azione concertata a livello mondiale per gestire i beni comuni della terra. «Se vogliamo risolvere problemi globali, dobbiamo implementare meccanismi decisionali globali e istituzioni globali funzionanti», scrive Ugo Bardi nel rapporto. «Purtroppo sono stati fatti pochi o nessun progresso in questo senso. Non che ci manchino le istituzioni, forse ne abbiamo troppe. È che queste istituzioni hanno poco o nessun potere sui governi nazionali».

Ci si rammarica, procedendo nella lettura del rapporto, del mancato incontro con il magistero di papa Francesco, che nel suo pontificato non ha cessato di esprimere la necessità di una governance globale capace di tutelare giustizia sociale e giustizia ambientale. Nel 2019, rivolgendosi ai partecipanti al XX Congresso mondiale dell’Associazione internazionale di Diritto penale, dopo aver premesso che «alcuni settori economici esercitano più potere che gli stessi Stati» e che la prevalenza del mercato «mette a rischio le istituzioni democratiche e lo stesso sviluppo dell’umanità», il Papa chiese al mondo giuridico un’azione comune volta a creare un efficace sistema sovranazionale di prevenzione e sanzione nei confronti di «delitti che hanno la gravità di crimini contro l’umanità, quando conducono alla fame, alla miseria, alla migrazione forzata e alla morte per malattie evitabili, al disastro ambientale e all’etnocidio dei popoli indigeni. Una delle frequenti omissioni del diritto penale, conseguenza della selettività sanzionatoria, è la scarsa o nulla attenzione che ricevono i delitti dei più potenti, in particolare la macro-delinquenza delle corporazioni. Non esagero con queste parole. Il capitale finanziario globale è all’origine di gravi delitti non solo contro la proprietà, ma anche contro le persone e l’ambiente. Si tratta di criminalità organizzata responsabile, tra l’altro, del sovra-indebitamento degli Stati e del saccheggio delle risorse naturali del nostro pianeta».

Parole durissime, in consonanza con quanto Carlos Alvarez Pereira, vicepresidente del Club di Roma, scrive in Limits and Beyond: «Il capitale è sempre più distaccato dalle realtà sociali e biofisiche, e allo stesso tempo aspira a controllarle tutte per ottenere rendimenti. Nel 2022, i libri contabili delle imprese e dei fondi d’investimento, sia pubblici che privati, mostrano ancora un enorme valore monetario legato ai combustibili fossili, mentre l’Africa è fortemente indebitata con il mondo 'sviluppato': una tragica ironia, dopo secoli di colonizzazione e schiavitù. Questo è l’elefante in ogni stanza in cui si discuta del futuro dell’umanità: le valutazioni del capitale nei libri contabili riflettono la distribuzione passata e presente del potere all’interno e tra le società, anziché il lascito per le generazioni future».

E' dalla co-presidente Mamphela Ramphele che vengono le parole più autocritiche e costruttive sullo scarso recepimento del rapporto del Club di Roma: una mancanza di attenzione alla dimensione umana e sociale nell’interrogare i dati, uno sguardo eccessivamente rivolto all’Occidente, una dominanza maschile euro-americana, poco spazio per Asia e Latinoamerica. Così che si sta consolidando, negli incontri annuali, una modalità di scambio con i giovani e una maggiore inclusione di donne e persone provenienti da ogni parte del mondo, con particolare riguardo ai popoli indigeni, custodi di una sapienza che abbiamo smarrito. «L’idea di cosa significhi essere umani viene riformulata in tutto il mondo, specialmente dai giovani che vedono i rischi posti da stili di vita competitivi e basati sul consumo eccessivo. I giovani, come i loro antichi antenati, stanno respingendo il primato accordato ai beni materiali. Stanno privilegiando la relazionalità come valore centrale di definizione di ciò che significa essere umani. Ubuntu – l’'Io sono perché Tu sei' – sta sfidando l’individualismo, la cultura dell’Io che ha scatenato e sorregge le emergenze planetarie su di noi».

Gli argomenti esposti in questo articolo saranno riproposti oggi a Milano da Daniela Padoan, scrittrice, saggista, direttrice dell’associazione Laudato si’, nell’intervento in occasione della presentazione nuovo rapporto del Club di Roma che si tiene a Palazzo Marino.

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