Davvero una guerra permanente è la strategia di Israele?

Di certo ad avere un piano è la destra messianica di Ben-Gvir e Smotrich: l’allargamento delle frontiere dello Stato ebraico e la riduzione della pluralità etno-religiosa di chi abita quei territo
August 5, 2025
Davvero una guerra permanente è la strategia di Israele?
Reuters | Il leader dell'ultra-destra religiosa e nazionalista israeliana, Itamar Ben-Gvir
Difficile sperare in un soprassalto di saggezza o almeno di umanità quando si tratta del premier israeliano Netanyahu e del suo terribile governo di estremisti e fomentatori di odio. Se Bibi ha ieri rinviato la decisione formale di occupare interamente Gaza è per la durissima reazione di parte della società israeliana, che vuole la fine della guerra e delle forze armate e di sicurezza, preoccupate per i rischi e i costi di questa nuova avventura militare. L’unico che potrebbe veramente fermare il governo di Tel Aviv è il presidente americano Donald Trump, finora sempre condiscendente verso Netanyahu, quando non addirittura manipolato da quest’ultimo. E non sembra che “The Donald” sia intenzionato a farlo.
La domanda che molti si pongono in questi mesi è se davvero la guerra permanente, se i continui crimini di guerra compiuti dalle forze armate israeliane a Gaza rappresentino la strategia di Israele. La verità è che chi guida quella nazione non ha alcuna “grand strategy”, come dicono gli anglo-sassoni, mentre nel Paese appare evidente una divaricazione sempre crescente e quasi inconciliabile su cosa debba essere Israele nel futuro. Il premier, è evidente da tempo, ha quale sua personale stella polare il rimanere al potere a ogni costo: un populista spregiudicato e che sfugge ai processi per corruzione, disposto a scardinare le istituzioni democratiche del suo Paese pur di non abbandonare la sua posizione che gli fa da scudo giudiziario. Un politico guidato quindi esclusivamente dal tatticismo, che ha finito per porlo nelle mani dell’ultra-destra religiosa e nazionalista che lo tiene al potere.
Quest’ultima – ben impersonata dai ministri Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich – una strategia chiara la possiede. Purtroppo, bisogna aggiungere. Perché il loro obiettivo, che sia in salsa religiosa settaria o nazionalista xenofoba, è terribile e inaccettabile, dato che prevede l’allargamento delle frontiere dello Stato ebraico e la riduzione della pluralità etno-religiosa di chi abita quei territori. Per quanto suoni storicamente doloroso il dirlo, è una visione che riecheggia i dettami di Geopolitik, la scuola di geopolitica tedesca creata da Haushofer dopo la prima guerra mondiale: ottenere il Lebensraum, lo “spazio vitale”, e cementarlo con un’unione sacra del suo Volk, il suo popolo. Anche per l’estrema destra ebraica, lo Stato è stritolato da confini esigui; per difenderlo dai suoi nemici occorre ritornare ai territori dell’Israele storico (appunto, raggiungere il suo “spazio vitale”). Ma dato che i territori di Gaza e Cisgiordania (vero obiettivo dell’ultra-destra) sono abitati da milioni di arabi musulmani e cristiani, bisogna forzarne lo spostamento. Termine neutro che sottende una deportazione di fatto.
Quanto preoccupa è che questa strategia aberrante goda di crescente popolarità, perché di fatto ha assorbito la visione della destra tradizionale, ad esempio del vecchio Likud. Come avvenuto in alcuni casi anche in Occidente, i conservatori classici non possedevano gli “anticorpi politici” per resistere a questa crescita, dato che erano le parole, i modi, la spregiudicatezza a differenziarli, più che gli obiettivi finali in sé.
Dall’altra parte dello spettro politico, i tanti e spesso frammentati partiti dell’area di centro-sinistra appaiono incapaci di proporre agli elettori dello stato ebraico una strategia politica di lungo termine credibile e rassicurante. I laburisti sono di fatto scomparsi sotto le macerie della tradizione loro visione “land for peace”, ridare parte delle terre occupate nel 1967 – come del resto richiesto dalle Nazioni Unite – in cambio della pace. Franata quella visione strategica, quest’area politica non sembra andare oltre alla denuncia dell’avventurismo e della inaccettabilità politica, etica e morale del fanatismo religioso o del massimalismo nazionalista dell’ultra-destra al potere. Da questo punto di vista, non vengono aiutati dalla catastrofica situazione del panorama politico palestinese, stretto fra il radicalismo terrorista di Hamas - che ha portato alla distruzione di Gaza e alle sofferenze del suo popolo, dopo il terribile pogrom del 7 ottobre - e la crisi catatonica dei vertici dell’Autorità politica palestinese, tanto corrotta, quanto inefficiente e silente.
È invece fondamentale che le parti migliori della società israeliana – che sono numerose – sfuggano all’incantamento delle visioni degli estremisti nazionalisti e religiosi. La storia è purtroppo piena di esempi di come le democrazie perdano se stesse allorché lasciano troppo spazio a pifferai pericolosi.

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