Il perduto orgoglio
giovedì 5 novembre 2020

L’esito tuttora inconcluso delle elezioni americane e la reciproca minaccia di ricorrere chi (Donald Trump) alla Corte Suprema chi alle vie legali (Joe Biden) attesta che ci troviamo al crepuscolo di quell’idea di democrazia partecipativa che il preambolo della Costituzione Usa, con il suo « We the People » (Noi il Popolo), proclamava orgogliosamente duecentotrentatré anni fa. Perché se non sono più i voti espressi a designare i grandi elettori che dovranno indicare il nuovo (o il vecchio) presidente ma una battaglia mediatico-legale sotto la sorveglianza occhiuta dell’Alta Corte significa che qualcosa nel meccanismo istituzionale si è malamente inceppato.

Il sospetto di brogli legato al mail-in ballot – il voto per posta – e sapientemente agitato da Trump tanto da far dubitare che una vittoria troppo risicata (dei democratici, naturalmente) non sia affatto tale non è nato ieri. È già accaduto l’ultima volta nel 2000, quando in Florida – uno Stato-chiave per la vittoria – il divario fra il democratico Al Gore e il candidato repubblicano George W.Bush fu di soli trecento voti. Il che impose l’estenuante riconteggio delle schede, fino a quando quel nodo gorgiano venne reciso da Antonin Scalia il membro anziano e ultraconservatore della Corte Suprema, che assegnò a Bush la vittoria pur riconoscendo che un conteggio preciso all’ultima scheda non ci sarebbe mai potuto essere. Il voto popolare in realtà aveva premiato Al Gore, che aveva distanziato Bush Jr di 500mila preferenze. Anche Hillary Clinton ebbe 3 milioni di voti più di Trump. Ma come si sa contano i grandi elettori e la macchinosa configurazione dei collegi elettorali dei singoli Stati, non il numero complessivo dei voti.

Al di là dell’incresciosa situazione che sembra oggi far retrocedere l’America nell’imbarazzante girone delle democrazie non ancora pienamente realizzate, è d’obbligo domandarci come si sia passati da quello che veniva considerato un modello virtuoso fondato sulla libertà e sulla separazione dei poteri – grazie soprattutto all’elogio che quasi due secoli or sono ne fece Alexis de Tocqueville nel suo celebrato De la Démocratie en Amérique – a un ring litigioso e violento dove l’unica regola pare essere l’assenza di regole rispettate.

Sicuramente Donald Trump ha avuto parte attiva e sovente irresponsabile in questa deriva che ha tramutato la funzione del Commander in Chief in una presidenza plebiscitaria basata sull’inosservanza e la frantumazione dei limiti al suo proprio ruolo. Una presidenza sempre meno bilanciata dai contropoteri che da Platone a John Locke venivano invocati come 'salutari' proprio perché – come ammoniva il padre del check and balance Montesquieu – «chiunque abbia potere è portato ad abusarne». Cosa che da Nixon a Trump, per restare negli ultimi cinquant’anni, è ampiamente avvenuto.

Certamente la Costituzione stessa – così gelosamente preservata da sostanziali modifiche negli oltre due secoli della sua longeva esistenza, tanto che solo ventisette delle migliaia di emendamenti via via proposti sono stati approvati nel corso della sua lunga vita – abbisogna di manutenzione. Così come la carica presidenziale necessita di nuovi aggiustamenti. E, diciamolo pure, di limiti più saldi e meglio definiti.

Nell’attesa di sapere chi occuperà dal 20 gennaio 2021 la West Wing della Casa Bianca, assistiamo a uno spettacolo che avremmo preferito non vedere: quello di un candidato presidente che è pure il presidente in carica – e che intercetta quasi il 49% del voto sinora espresso – che si proclama vincitore prima ancora dell’esito finale e che minaccia di impugnare il verdetto delle urne con il tono autoritario di chi si considera il padrone. Anche della Corte Suprema.

Una vertigine del potere che disonora secoli di democrazia americana. Soltanto i satrapi di moribondi khanati est-europei e orientali – ultimo in ordine di tempo, Lukashenko – hanno fornito prove analoghe. «Serve pazienza. Non spetta né a me né a Trump decidere chi ha vinto queste elezioni. Spetta a voi, alla gente», ha ammonito 'Sleepy' Joe Biden. L’uomo tranquillo e senza fascino che mezza America, persino suo malgrado, ha votato per spegnere l’incendio che il suo avversario ha attizzato in quattro anni forsennati dividendo in due il Paese e portandolo – ma non è stato il solo, perché estremismi radicalizzanti di diverso segno erano in puntiglioso agguato – al limite di una latente guerra civile. E sono proprio queste le ore (o forse i giorni) cruciali e più difficili. E soprattutto interminabili.

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