I «trafficanti» e l’antidoto all’illegalità
mercoledì 11 settembre 2019

Il programma di governo del Conte Secondo sembra aver trovato una mediazione in materia di immigrazione, in termini abbastanza vaghi per tenere insieme istanze contrastanti. A parte la confusione tra «gestione dei flussi migratori» e «gestione dei flussi per asilo», un punto ritorna, pressoché scontato nelle politiche migratorie non solo italiane: «La lotta al traffico illegale di persone e all’immigrazione clandestina». Al centro del discorso figura inevitabilmente il ruolo dei trafficanti, anche se si spera di vedere finalmente rimosse dal linguaggio politico le surreali accuse di complicità («vice-scafisti») a chi si prodiga per salvare le persone in mare. I trafficanti nell’immaginario collettivo formano una galassia indistinta, spesso confusa con la tratta di esseri umani, con la riduzione in schiavitù e con altre nefandezze. Una recente vicenda giudiziaria getta però una luce istruttiva sul parossismo che ha mosso persino l’approccio istituzionale al fenomeno e sull’identità degli stessi trafficanti. La Corte di Assise di Palermo ha smontato il castello accusatorio e disposto il rilascio di Medhanie Tesfamarian Berhe, eritreo, arrestato in Sudan nel 2016, estradato in Italia e trattenuto per tre anni in carcere.

Era stato scambiato con un altro eritreo, noto come 'il Generale' e ritenuto il capo di una rete di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare coinvolta fra l’altro nel naufragio di Lampedusa dell’ottobre 2013, con quasi 400 vittime. A favore di Berhe si erano mobilitati migliaia di eritrei, lo scagionavano i test del Dna, il confronto tra le voci intercettate, svariate testimonianze. La Procura, irremovibile, pur non potendo disporre di un solo testimone, aveva chiesto 14 anni di carcere. Berhe è stato invece condannato per aver aiutato un cugino a raggiungere la Libia, tanto che la Procura di Palermo si è intestata la vittoria processuale per aver ottenuto un verdetto di colpevolezza del reato di favoreggiamento dell’immigrazione illegale. Se si guarda all’identità dei cosiddetti scafisti, quando vengono arrestati a seguito degli sbarchi, si può scoprire qualche altro aspetto del fenomeno del traffico. Di solito gli scafisti sono tre: uno tiene il timone, il secondo la bussola, il terzo il telefono satellitare. L’indignazione elevata a sistema li addita come i registi e massimi profittatori del traffico.

Nessuno si domanda come mai incalliti criminali si mettano alla guida dei barconi, consegnandosi così quasi certamente a severe condanne. In realtà, si tratta in molti casi di giovanissimi reclutati nelle città costiere della Libia o della Tunisia, non di rado di minorenni. Un giornale (vicino alle posizioni 'sovraniste') titolava qualche tempo fa: «Preso un boss di sedici anni». Era alla guida di un barcone. In alternativa, sempre più spesso sono risultati coinvolti guidatori della stessa nazionalità dei trasportati, scelti tra loro per il possesso di qualche (asserita) cognizione nautica, oppure semplicemente obbligati a mettersi al timone. L’ultimo anello del traffico diventa ai nostri occhi il massimo vertice della rete del trasporto illegale.

Forse perché è l’unico che riusciamo a individuare e trattenere. Le non molte ricerche sul difficile argomento aggiungono altri particolari. Nel caso eritreo, Milena Belloni ha mostrato che il ruolo di 'trafficante' si articola in diverse figure: comprende le 'guide' che accompagnano i migranti a piedi attraverso le frontiere; gli 'autisti' che li trasportano in auto; gli 'intermediari' che mettono in collegamento guide e autisti con i clienti. Gli intermediari possono essere a loro volta più o meno professionali. Tra di loro ce ne sono che corrispondono all’immagine di criminali senza scrupoli pronti a sequestrare e torturare chi si affida a loro, e altri invece integrati e benvoluti tra i connazionali all’estero.

Considerati addirittura dei 'benefattori'. Altri studi insistono sulla varietà delle reti del favoreggiamento dell’immigrazione non autorizzata: un conto è una banda criminale armata che muove decine di persone, un altro un 'passatore' che aiuta ad attraversare una frontiera, un pescatore che organizza un trasporto, un marinaio che occasionalmente o meno trasporta in barca a vela un gruppo di profughi, come avviene più spesso ultimamente; un altro ancora una rete di parenti che si attiva per favorire l’arrivo di un congiunto. Nel caso palermitano l’ultimo caso è stato confuso con il primo.

Il parente favoreggiatore è stato trasformato in boss criminale. Il traffico è quindi un fenomeno articolato, con gradi diversi di complessità, di strutturazione criminale, di ricerca del profitto a ogni costo. Dietro a esso sta però una grande ipocrisia: se il traffico esiste, lo si deve alla mancanza di canali legali per raggiungere l’Europa (e altre terre) in cerca di asilo o di un lavoro. Se non c’è modo di arrivare con mezzi legali, anche chi ha titolo per ricevere protezione internazionale deve ricorrere a mezzi illegali. Si accusano dunque i trafficanti delle morti in mare, ma la responsabilità va fatta risalire alle radici del fenomeno. Coinvolge in pieno chi non offre alternative lecite e trasparenti alle persone che vorrebbero esercitare il diritto umano alla mobilità, o addirittura alla fuga da guerre e repressioni. Ossia i Governi del Nord del mondo e chi li incita a chiudere le frontiere a ogni costo e verso tutti. Benestanti esclusi. La citazione dei 'corridoi umanitari' nel discorso programmatico di Conte fa sperare in un approccio nuovo, da condividere in Europa, per consentire di esercitare il diritto di asilo senza rischiare la vita in mare, nel deserto o nelle prigioni libiche. La promessa di un linguaggio mite è un altro passo avanti, ma c’è bisogno di scelte fattive e coerenti.

Sociologo, Università di Milano e Cnel

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