Il minimo è discuterne
martedì 25 luglio 2023

Qual è il salario “giusto”? A quale livello va fissato e come? Le domande che in queste settimane sono tornate ad aleggiare nel dibattito politico hanno interrogato per secoli teologi, filosofi e giuristi fin dal Medioevo. Con risposte che hanno oscillato tra il riconoscere un valore intrinseco ad ogni lavoro e invece l’idea che la determinazione del salario, così come degli altri prezzi, possa scaturire solo dal confronto tra le parti interessate. Cioè da una contrattazione. Ponendosi però l’ulteriore problema etico di una remunerazione che sia in grado di assicurare almeno la sussistenza del lavoratore. Principio fissato nella nostra Costituzione all’articolo 36: «Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa».

Il tema del salario minimo, dunque, è vecchio. Ma si ripropone con forza e urgenza perché sono mutate le condizioni di contesto. E con esse ciò che rendeva inutile, se non deleterio, applicarlo nel nostro Paese. Soprattutto, non è una questione semplice. Non si può perciò né liquidarla dicendo che c’è la contrattazione e basta, né proporla semplicisticamente come una ricetta applicabile mettendo insieme pochi ingredienti. Sarebbe bene dunque promuovere un dibattito molto approfondito, senza pregiudiziali ideologiche o partitiche, come si conviene a una riforma destinata a toccare la vita concreta dei cittadini.

Il principio che la contrattazione sia lo strumento migliore per tutelare complessivamente i lavoratori – sul piano salariale, organizzativo e dei diritti – resta senza ombra di dubbio valido. E occorre dunque prestare la massima attenzione a non svilire il ruolo di rappresentanza delle parti sociali, la loro autonomia, evitando di mettere nelle mani della politica qualcosa che è bene non gli appartenga, come la determinazione dei salari. I dati dimostrano, però, che i contratti stipulati dai soggetti rappresentativi di imprenditori e sindacati non solo non coprono più l’intero mondo del lavoro, lasciando scoperti milioni di lavoratori (almeno il 1015%) ma anche che nel complesso non sono riusciti a tutelare abbastanza il potere d’acquisto dei dipendenti (solo nell’ultimo triennio hanno perso il 7,5%). Dato che ovviamente pesa di più su chi guadagna meno. Peggio: la contrattazione sta diventando un «generatore di diseguaglianze», come ha spiegato ad “Avvenire” l’economista dell’Ocse Andrea Garnero. Con settori ipertutelati e altri trascurati, con segmenti che godono di una doppia contrattazione (nazionale e aziendale) e altri nei quali gli stessi accordi firmati da Cgil, Cisl e Uil (non da sindacati gialli con intese pirata), prevedono minimi davvero risicati e bloccati da anni.

Responsabilità che ricadono anzitutto sui datori di lavoro, generalmente poco propensi a investire e innovare per incrementare la produttività e che invece puntano troppo spesso solo a mantenere basso il costo del lavoro. Anche esternalizzando funzioni e pagando i servizi a livelli che sanno non essere adeguati e sopportabili dalle aziende in subappalto, se non evadendo il fisco o sfruttando i dipendenti. Lo dimostrano le ormai decine di casi sollevati dalla magistratura milanese e che coinvolgono grandi gruppi della logistica, della distribuzione organizzata e da ultimo della vigilanza.

Proprio le tante inchieste giudiziarie rendono evidente che la magistratura stessa sta trasformando una meritoria azione repressiva in una supplenza alle parti sociali e al legislatore inerti: indicando quale contratto sia preferibile applicare – non Vigilanza ma Multiservizi negli ultimi due casi – prendendo gli indici Istat sulla povertà assoluta come riferimento per sanzionare questo o quell’accordo contrattuale, ribadendo il principio del “salario sufficiente”, così come stabilito nella Costituzione.

Di fatto, è la Procura di Milano oggi a indicare così un livello di salario minimo legale. Oltre la repressione, la proposizione. O forse, un domani, l’imposizione di un modello. Si comprende allora perché non sia più possibile ribadire semplicemente che “basta la contrattazione”. Anche per la Cisl – che pure difende coerentemente un modello di sindacato-associazione, fortemente negoziale, da sempre incentrato su un doppio livello di contrattazione: nazionale e aziendale – non ha più senso arroccarsi semplicemente nella difesa dell’esistente, rischiando di essere scavalcata da altri soggetti e soprattutto dalla realtà. Così come alla maggioranza politica non conviene, anche nei confronti della sua base elettorale, limitarsi a cancellare la proposta delle opposizioni.

O alla minoranza usarla a fini meramente strumentali nel gioco politico, perché le cause del lavoro povero sono tante e non si risolvono così semplicemente. Occorre invece uno sforzo collettivo per provare a immaginare come possano (come dovrebbero) convivere e completarsi contrattazione e forme di salario minimo legale: attraverso l’estensione erga omnes dei minimi fissati nei Ccnl o anche sperimentando soglie legali per i segmenti di lavoro povero in attesa di essere contrattualizzati, magari con un’Authority indipendente a stabilire livelli e a vigilare. Non è una questione semplice, certo. Ma è ineludibile. E due mesi di dibattito autunnale sul tema in Parlamento – serio, approfondito, mettendosi in ascolto degli esperti e della realtà - sono il minimo, davvero il minimo che si deve a 3 milioni di lavoratori poveri.

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