giovedì 6 settembre 2012
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Sono stata in Inghilterra in queste ultime settimane e ho potuto seguire da vicino le Paralimpiadi. All’inizio con sorpresa e stupore: tutte le sere moltissime persone erano inchiodate allo schermo (anche ai maxi schermi nelle piazze, visto che i biglietti per assistere alle competizioni erano esauriti), esattamente come durante le Olimpiadi.Ho ascoltato telefonate in cui ci si raccontava e commentava con entusiasmo le imprese del giorno precedente e si discuteva su questo o l’altro atleta. Ho letto articoli in cui si parlava del linguaggio corretto da usare durante le Paralimpiadi, per non essere irrispettosi verso la dignità degli atleti. Ho seguito le interviste alla fine delle gare, dove persone con disabilità anche mentali manifestavano, a modo loro, tutta la gioia della conquista. Una festa del diritto allo sport come una delle "capacità fondamentali" delle persone, delle loro libertà, della nostra democrazia. Per questo non vi ho trovato nulla di "compassionevole".Ho provato ammirazione per atleti che, menomati dalla nascita, o a causa di malattie o incidenti, si sono messi in gioco, hanno saputo "trafficare" i loro talenti, e rappresentano un esempio per chi non voglia rassegnarsi. In Inghilterra li chiamano superhumans. Ma devo dire che capisco meglio l’espressione, pur controversa, «diversamente abili»: sono persone hanno sviluppato abilità diverse dalla norma, come saper nuotare velocemente senza vederci, o con una gamba e un braccio, o giocare a basket da una carrozzella. E con un certo rammarico, che è diventato presto tristezza civile, ho notato che per guardare sul web il medagliere italiano dovevo scorrere a lungo le pagine dei principali siti dei giornali italiani, che poche notizie vengono riportate in prima pagina sulle Paralimpiadi. Perché? Per non doversi confrontare con queste domande e dimensioni della vita? O per quale altra ragione?Quando poi riesco finalmente a trovare il medagliere scopro che siamo ventitreesimi in classifica. Tra i primi dieci nelle Olimpiadi e oltre i venti per le Paralimpiadi. Sappiamo che esiste una certa correlazione, sebbene non perfetta, tra il Pil dei Paesi e il medagliere nelle Olimpiadi. Sono convinta che il medagliere delle Paralimpiadi possa invece essere considerato un indicatore di benessere "alternativo al Pil", che misuri qualità vera della vita, diritti, democrazia. Una medaglia è sempre frutto di talento individuale ma, lo sappiamo, è anche il risultato di quello che in una nazione si mette in campo per selezionare, far crescere, curare gli atleti.La tradizione italiana del fioretto, che ha stravinto durante le Olimpiadi, è fatta di scuole che permettono fin da bambini di allenarsi in modo professionale. «Per crescere un bambino ci vuole un intero villaggio», recita un bel proverbio africano. E per far sviluppare un talento – soprattutto quello che nasce all’interno di un corpo "ferito" – c’è bisogno di un’intera comunità civile, che sappia vedere, accudisca, crei le condizioni, accompagni fino a far fiorire l’atleta, la persona, la comunità. Ma in Italia tutto questo c’è? Su quali reti civili, che non siano le associazioni di volontariato (che continuano a essere la forza che attutisce e supplisce una serie di mancanze), i disabili possono contare per iniziare una carriera sportiva?Forse il primo passo sarebbe quello di considerare queste persone dei veri atleti, e non lasciare alla disabilità che "si mangi" la persona. Cecilia Camellini, dopo aver vinto nel nuoto un doppio oro a suon di record mondiali, è stata chiara: «Sono felice, perché rappresento un movimento di persone che vogliono essere trattate come atleti». Migliorare in questo ambito ci permetterebbe di fare passi avanti nella via dello sviluppo umano, civile ed economico, che è vero solo se è per tutta la persona e per tutte le persone.
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