mercoledì 26 novembre 2008
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Nel XX secolo, in specie la prima parte ma poi anche fino agli anni Settanta, le religioni e le tendenze religiose sono state duramente represse in molte parti del mondo (paradigmatico il caso dei totalitarismi), oppure confinate al di fuori della sfera pubblica col fenomeno occidentale della secolarizzazione e del liberalismo agnostico. Da circa trent'anni la situazione appare mutata e solo nell'Occidente la religione fatica a riemergere, mentre altrove le tendenze religiose, sia pure al prezzo del rischio del fondamentalismo, dispongono del potenziale sufficiente a conferire una diversa forma alle realtà politiche a un livello che forse non ha l'eguale dall'epoca del sorgere del nazionalismo moderno. Probabilmente si realizzerà nel XXI secolo un nesso tra religione e politica diverso da quello da tempo consolidatosi in Occidente, capace di avvertire la nuova incidenza delle religioni quali grembo delle grandi civiltà e di superare la critica del cristianesimo che ha costituito il collante di culture, filosofie e politiche per il resto divergenti. Il problema del nuovo secolo è di giungere a una sfera pubblica eticamente e religiosamente qualificata in cui democrazia e religione si incontrino, si pervenga a un'idea di laicità diversa da quella della loro reciproca estraneità, in cui i limiti della concezione liberale della libertà siano trascesi. Qualcosa ormai si muove anche in Italia ed è segno il libro di Marcello Pera Perché dobbiamo dirci cristiani. L'autore oltrepassa decisamente il celebre detto crociano: «Perché non possiamo non dirci cristiani». Il passaggio rappresenta un progresso per l'Europa e per il liberalismo, se vogliamo uscire dalla crisi di identità in cui ancora entrambi versano: l'Europa per riprendere la sua storia di giustizia e libertà che ha profondissime radici cristiane, il liberalismo e la democrazia per fuoriuscire dalla sfortunata idea che vera laicità significhi mettere da parte Dio e la religione e procedere «come se Dio non ci fosse». Questa sentenza costituirebbe la morte di ogni «teologia politica», che viceversa rinasce oggi anche in Occidente. Pera mette in luce le radici originariamente cristiane del liberalismo dei Padri fondatori (a partire da Locke), che successivamente nell'Illuminismo, nell'800 in buona parte del 900 si sono severamente ridotte o sono state completamente abbandonate. È significativo che autori liberali quali Hayek e Rawls lo abbiano apertamente riconosciuto. Secondo il primo, «diversamente dal razionalismo della rivoluzione francese, il vero liberalismo non ha da litigare con la religione, che Dio possa solo deplorare il militante ed essenzialmente antiliberale spirito antireligioso, che animò tanta parte del liberalismo continentale del XIX secolo». Rawls sostiene che «non vi è né vi deve essere alcuna guerra tra religione e democrazia. A questo riguardo il liberalismo politico è nettamente differente e rigetta il liberalismo illuministico che storicamente attaccò l'ortodossia cristiana». Il liberalismo ha bisogno di una profonda riforma per ritornare alle sue sorgenti umanistiche e cristiane. Altrettanto vale per le società liberali dell'Occidente che si trovano da tempo a un bivio in cui devono decidere se scegliere la strada di un'ulteriore secolarizzazione, ovvero riprendere un contatto con l'esperienza cristiana e la sua proiezione civile. Tali società devono riannodare il rapporto con una tradizione di cui siamo figli, evitando l'assolutizzazione di una libertà decentrata e solitaria. Poiché in notevoli parti il liberalismo è figlio del cristianesimo, esso tende a scomparire o a trasformarsi in qualcosa di degenere se taglia da sé come impuro il radicamento cristiano. Non è più in grado allora di stabilire se esistano diritti e valori che valgano di per sé e indipendentemente dal fluttuare delle maggioranze politiche. Pera distingue tra «cristiano per fede» e «cristiano per cultura», riconoscendo che questa distinzione rimane oggi precaria. Insisto anch'io: il «liberale-cristiano per cultura» non può durare a lungo se non cerca di raggiungere il «liberale-cristiano per fede». Qui si apre lo spazio della decisione umana e della grazia divina che orientano verso l'imprevedibile. Il cammino verso il Dio di Gesù Cristo dischiude grandi vantaggi per la società in specie nei delicati problemi della sfera pubblica: biopolitica, giustizia politica e pace, senso dei diritti e dei doveri, valore della persona. L'esito è possibile se si nutre fiducia in una speranza credibile, che assomiglia molto alla speranza di Benedetto XVI (Spe Salvi) e quella di Péguy.
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