giovedì 10 settembre 2015
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​I frutti economici, sociali e spirituali dell’Unione Europea dipendono e dipenderanno in modo cruciale dalla capacità di costruire reti di solidarietà interna (tra Paesi membri) e verso l’esterno sapendo affrontare nella maniera migliore possibile la difficilissima sfida della globalizzazione delle persone e la crisi dei migranti. Consapevole di ciò, pur tra mille divisioni e difficoltà, il presidente della commissione europea Juncker ha presentato ieri un piano per allocare 160mila profughi tra i Paesi europei e per trasformare Frontex in una vera e propria guardia di frontiera. Nel novembre 2014 il ritardo dell’Europa dei ragionieri e dei banchieri appariva drammatico e tale da mettere a rischio il processo d’integrazione fino a spingere alcuni di noi economisti a formulare un quasi disperato appello sottoscritto da più di 350 colleghi. In meno di un anno parecchia strada è stata fatta. Il quantitative easing (l’acquisto da parte della Bce del titoli del debito degli Stati membri) è stata la prima tappa di "solidarietà" e cooperazione finanziaria che ha ridotto il gap di costo del debito tra Europa del Sud e del Nord. È arrivato poi l’annuncio del piano Juncker che dovrebbe rinforzare significativamente la politica fiscale europea stimolando gli investimenti prevede con una rete di garanzie e di partecipazioni in capitale di rischio una significativa capacità di moltiplicare le risorse finanziarie effettivamente messe a disposizione. Come tale, il piano appare adatto a rilanciare gli investimenti privati e non quelli pubblici a bassa redditività. Ma c’era bisogno di un qualcosa di più grave e più grande che andasse oltre le dispute sui conti per far ripartire l’ideale europeo. Qualcosa di più grave e più grande è accaduto, amplificato in tutta la sua drammaticità dalle istantanee che sappiamo. E il fatto che ha cambiato, forse in modo decisivo, l’immagine dell’Europa è stata la decisione tedesca di accogliere praticamente senza limiti i rifugiati provenienti dalla Siria. È come se il muro di Berlino fosse caduto di nuovo, solo che stavolta eravamo noi europei ad aver eretto una barriera che voleva difenderci ed immunizzarci, anche emotivamente, dal problema di chi dall’altra parte premeva in condizioni di drammatico bisogno.È vero che si tratta di una decisione non concordata con gli altri partner europei che in prospettiva va a colmare un gap di forza lavoro che un Paese in piena occupazione e in forte crisi demografica sarebbe andato a creare nei prossimi anni. Ciò nonostante, si tratta di quel gesto di generosità, comunque eccedente e gratuito, che in molti accusavamo i tedeschi di non essere capaci di fare e di non essere stati in grado di mettere in atto in occasione della crisi del debito greco. La sorprendente svolta della Germania e dell’Europa è come una bella nevicata d’estate, che con il suo manto bianco copre le miserie del paesaggio dei piccoli e grandi egoismi che hanno paralizzato il progresso del cammino europeo in questi ultimi anni. Probabilmente l’invocazione della Germania da parte dei profughi siriani e le foto della Merkel alzate da molti di loro, che hanno commosso anche noi che tedeschi non siamo, non hanno certo lasciato insensibili e hanno stimolato la generosità della risposta dei cittadini del Paese-locomotiva d’Europa. Certo è che per la prima volta nella storia i tedeschi (prima grandi imputati, poi terminali della generosità altrui con il Piano Marshall) hanno avuto l’occasione di comportarsi da "americani" e da liberatori di un popolo.Le conseguenze su molti altri fronti di questo gesto spiazzante e confortante, non vanno minimizzate. Il sentimento antitedesco di molta parte dell’Europa del Sud subisce un duro colpo. Il mondo (e anche la nostra opinione pubblica) si divide in due grandi categorie. Coloro che alzano muri e difese perché pensano che gli altri sono un problema, un nemico che insidia i nostri valori, i rivali che ci contendono il godimento di beni scarsi in un gioco a somma zero (se gli immigrati prendono una parte della nostra fetta la nostra torta si riduce).E coloro che, tutto sommato, pensano che gli altri potrebbero essere la soluzione perché il senso della vita è nel dono, e animati dai loro valori si buttano oltre l’ostacolo, talvolta senza troppi calcoli essendo per questo derisi da quelli del primo gruppo. Primo gruppo che viveva da tempo in un comodo cliché in cui gli stranieri che portano delinquenza vengono a toglierci il lavoro in un’Europa immiserita dai tedeschi che guardano solo al loro interesse e puntano a costruire il Quarto Reich. Gli stupefacenti fatti di questi giorni, gli applausi e l’accoglienza alle stazioni di Monaco e Vienna abbattono con un colpo solo la "fabbrica della paura" politico-mediatica che su queste pagine abbiamo attaccato frontalmente in agosto. E rendono necessario un faticoso lavoro di rielaborazione nel tentativo di puntellare in qualche modo un teorema ormai pieno di crepe.Quando John F. Kennedy, nel secondo dopoguerra, andò a visitare Berlino Ovest pronunciò la famosa frase «Io sono Berlinese». Dopo aver visto le scene di calda accoglienza di questi giorni ci sentiamo tutti più tedeschi ed europei. Pur consapevoli che le emozioni vissute non bastano e la sfida inizia solo ora. Il futuro nella libertà, nella felice integrazione delle diversità cresce solo se siamo capaci di cuore e di visione, di solidarietà concreta e di regole comuni salde e buone.
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