giovedì 19 novembre 2015
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Siamo tutti pienamente consapevoli, di fronte alle brutali atrocità di questi giorni, che gli Stati hanno il dovere di difendere i propri cittadini. Che è necessaria la volontà politica di combattere il terrorismo e che è decisivo anche da parte della comunità internazionale trovare le modalità di operare insieme e debellare questo flagello dell’umanità. Sì, ma come? In questa «terza guerra mondiale combattuta a pezzi» sappiamo bene che «c’è chi questo clima vuole crearlo e fomentarlo deliberatamente, in particolare coloro che cercano lo scontro tra diverse culture e civiltà, e anche coloro che speculano sulle guerre per vendere armi», come ha detto – chiaramente e più volte – il Papa, denunciando gli interessi dei «pianificatori del terrore» e degli «interessi geopolitici che sacrificano l’uomo ai piedi dell’idolo del denaro». Del resto – Francesco lo ha ricordato davanti al Congresso degli Stati Uniti d’America – anche imitare l’odio e la violenza dei tiranni e degli assassini equivarrebbe a prendere il loro posto.Per questo, la strada del dialogo che a tanti appare oggi la più ardua e lunga è quella che si potrebbe rivelare davvero efficace e duratura. E per questo la Chiesa la propone, dando l’esempio, agli Stati. Si tratta di «trovare le modalità di dialogo e fare anche riferimento alle risorse delle varie religioni perché possano aiutare e collaborare in questa lotta», spiega il segretario di Stato, Pietro Parolin, mentre la Santa Sede si adopera, anche attraverso i canali diplomatici, con questo metodo e con il puro e semplice obiettivo di fermare la fabbrica delle tragedie. Il dialogo è un dovere imprescindibile, e vitale – al suo interno – è l’esigenza di far crescere con reciproca fiducia e profondità il dialogo interreligioso. Quest’ultimo, infatti, «costituisce l’antidoto migliore contro ogni forma di fondamentalismo», come è stato osservato, denunciando tale fenomeno e constatando l’esistenza di atteggiamenti e pratiche anti-dialogiche non solamente da parte di altri ma anche dentro la Chiesa cattolica.Il dialogo tra le religioni è una condizione imprescindibile per la pace, e per questo «è un dovere per tutti i credenti – ha affermato Francesco –. È una scuola di umanità e un fattore di unità che aiuta a costruire una società fondata sulla tolleranza e il mutuo rispetto. E non può limitarsi ai soli responsabili delle comunità religiose, ma deve estendersi a tutti i credenti, coinvolgendo le diverse sfere della società civile. Siamo consapevoli che c’è ancora tanta strada da percorrere. Non lasciamoci però scoraggiare dalle difficoltà, e continuiamo con perseveranza». La Chiesa sente dunque, per sua natura, la responsabilità di disinnescare conflitti e di edificare solidi ponti nella società.È questa la rotta lungo la quale si sviluppano i viaggi apostolici, sino al prossimo che porterà il Papa in Africa, lungo la strada tenacemente seguita che fa appunto del dialogo senza esclusioni – rivolto agli uomini e alle donne di buona volontà, non solo alle comunità cristiane, ma anche di altre religioni – la chiave di volta per il perseguimento della giustizia e la costruzione di una pacifica convivenza fra i popoli. «Siamo convinti che per questa via passa la cooperazione per il bene comune e l’edificazione della pace del mondo», ha sottolineato il Papa fin dai primi giorni di pontificato. In questa disponibilità c’è quindi un "no" deciso alle generalizzazioni, che sono troppo spesso frutto di amplificazioni mediatiche e che, obbedendo ad altri interessi, tendono a snaturare la razionalità dell’apertura al dialogo e – magari per sminuirla – la scambiano per un segno di debolezza e di buonismo. Un "no" fermo alle narrazioni che inducono le opinioni pubbliche a credere che le differenze di credo conducano all’incompatibilità e, infine, accreditano l’idea che religione e violenza siano sorelle. Per queste vie storte si fomentano chiusura e inerzia mentale, paura di cambiare e patologiche idiosincrasie, alimentando anziché la «cultura dell’incontro» la «cultura del disprezzo», secondo la denuncia formulata già negli anni Sessanta del Novecento dall’intellettuale ebreo Jules Isaac e all’origine della strada segnata dalla dichiarazione conciliare Nostra aetate sulle relazioni della Chiesa cattolica con le altre religioni.Perseguire la strada delle relazioni possibili combacia perfettamente con la razionalità, che è cercare il bene comune per tutti. Utopia quindi non sono la fattiva possibilità del dialogo, la coesione sociale, le concrete e sempre percorribili vie della pace. Utopia è che con la guerra si possa ripristinare la giustizia. È la storia a insegnarlo, ed è la realtà che lo conferma, non le convinzioni personali del Vescovo di Roma. «Ma quando capiremo la lezione?», aveva chiesto in San Pietro il giorno seguente la visita agli immensi cimiteri della prima Guerra mondiale. Ma quando impareremo anche l’altra lezione, quella della perseveranza nel dialogo e non nei muri? «Cosa possiamo fare come comuni cristiani affinché le persone non si rassegnino o non erigano nuovi muri? Parlare chiaro, pregare, condividere, servire», ha risposto il Papa domenica scorsa, incontrando la Chiesa luterana di Roma.Un giorno a Madre Teresa di Calcutta posero questa domanda: «Ma tutto lo sforzo che lei fa soltanto per far morire con dignità questa gente che è a tre giorni dalla morte, cos’è?». Lei rispose: «È una goccia d’acqua nel mare, ma, dopo, il mare non è più lo stesso... Col servizio i muri cadranno da soli, anche se il nostro egoismo e il nostro desiderio di potere cerca sempre di costruirli». Questa è la «porta» culturale e politica oltre che spirituale che dobbiamo attraversare per gettare le basi di un cambiamento di vita personale e di paradigma nella vita del mondo. E questa «porta» per i cattolici non è un’illusione, e non è un’opzione. Uniti al pastore della Chiesa universale, per primi abbiamo ciascuno il dovere di cercarla e di attraversarla con la pratica quotidiana. La questione, però, riguarda tutti. Altrimenti la condanna oggi e in futuro, per noi e per i nostri figli, sarà soggiacere alla pars destruens. Ma rassegnarsi al male non si può.
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