mercoledì 5 dicembre 2012
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Fra le principali scelte politiche del "governo dei tecnici" vi è una marcata torsione centralista non solo della gestione della finanza pubblica, ma anche della configurazione complessiva del sistema delle autonomie territoriali. Il dimezzamento – con decreto-legge – delle Province delle Regioni ordinarie, l’intervento sulla composizione degli organi regionali, la riduzione degli spazi di autonomia finanziaria delle Regioni conseguente a un uso forte della competenza legislativa statale in materia di armonizzazione della finanza pubblica, la reintroduzione – ancora con decreto-legge – di un sistema di controlli sugli atti delle autonomie abrogati con la legge costituzionale n. 3 del 2001, sono i punti di maggiore rilievo di una strategia organica che l’attuale esecutivo sta perseguendo. Il disegno di legge costituzionale presentato a metà ottobre al Senato, pur non avendo alcuna possibilità di essere approvato entro la legislatura, è il coronamento, anche dal punto di vista ideologico, di questa strategia, il cui senso può essere riassunto nell’idea che il regionalismo non sia economicamente sostenibile. Le autonomie, insomma, sarebbero un lusso, al quale, in tempo di crisi, occorre rinunciare. Di esse resterà nient’altro che un decentramento amministrativo, con un ruolo meramente esecutivo, e non più politico, delle Regioni, e, a maggior ragione, di Province e Comuni. E nemmeno ciò è più scontato, visto che in una funzione statale come la giustizia si è assistito a un’imponente operazione di riaccentramento, con la chiusura di decine di uffici giudiziari periferici. Eppure l’art. 5 della Costituzione italiana, vede nelle autonomie e nel decentramento un vero e proprio modo di essere della Repubblica. Le cause di queste vicende sono molteplici. È indubbio che, in tempi di tagli, che incidono sui portafogli (e sulle vite) delle persone, tutte le amministrazioni pubbliche, comprese quelle territoriali, debbano "stringere la cinghia". I vincoli europei, inoltre, sono da sempre un fattore di riaccentramento statale: basta ricordare il vecchio dibattito sulla «cecità federale» della Cee, anche se gli ultimi vent’anni sono stati segnati da un costante sforzo per rendere "visibili" le regioni e le autonomie dalle istituzioni europee, che sono oggi impegnate a interagire con esse da previsioni espresse dei Trattati. In terzo luogo, il governo attuale ha uno dei suoi punti di forza nelle alte burocrazie ministeriali. Proprio queste burocrazie – interpreti degli interessi dello Stato centrale – sono tradizionalmente avversarie delle Regioni e delle autonomie. Infine, è quasi superfluo ricordare che la pessima prova di sé data da varie leadership e rappresentanze politiche regionali ha contribuito non poco a delegittimare il regionalismo e più in generale la politica locale, e con esse le istituzioni che vi danno corpo. Per di più, la grande stampa ha in genere accompagnato con entusiasmo la Grande Restaurazione Centralista. Di tutto ciò ci sarebbe ben poco da dolersi se questo fosse il modo per sbarazzarsi di qualche politico locale di lungo corso, del quale sarà difficile avere nostalgia. Il problema, però, è molto più serio. Con la compressione e lo svuotamento delle autonomie è in gioco la qualità stessa della democrazia italiana. Il progetto costituzionale del 1947 (aggiornato dalla imperfetta riforma del 2001) vede infatti in un diffuso tessuto autonomistico una chiave essenziale di una democrazia non limitata alle forme della rappresentanza nazionale. La dimensione regionale, provinciale e locale della politica era la premessa di una democrazia che non ricadesse né nella scissione fra Paese legale e Paese reale tipica dell’età liberale, né nell’autoritarismo fascista. Prendere atto dei limiti con cui questo progetto è stato sinora realizzato è una cosa, accantonarlo a colpi di decreto-legge, tutt’altra. E non si può dimenticare che per i cattolici italiani quello delle autonomie – e delle Regioni in particolare – è sempre stato un tema di importanza centrale: si pensi alla pratica politica nei Municipi di fine Ottocento, alla «regione per liberare le energie della nazione» dell’appello "Ai liberi e ai forti" di don Sturzo, alla battaglia regionalista dei democristiani in Assemblea costituente. Nel momento in cui l’offerta politica di matrice cattolica si articola e si arricchisce, sarebbe interessante ascoltare qualche riflessione su questa questione così essenziale.
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