mercoledì 22 ottobre 2008
COMMENTA E CONDIVIDI
Che ci faceva la sacra Corona unita, la "quarta mafia" pugliese, in Trentino? Affari "fuori casa". Come accade sempre più spesso. L'operazione di ieri del Ros dei Carabinieri contro un clan della Scu ormai stanziale in alcuni centri trentini, conferma quanto le mafie non siano più un fenomeno circoscritto alle quattro regioni a tradizionale presenza criminale. È sempre di ieri la notizia di investimenti della 'ndrangheta in prestigiosi esercizi commerciali nel centro di Roma. Non c'è da stupirsi. Due giorni fa il ministro dell'Interno Roberto Maroni, intervenendo a Catanzaro all'incontro promosso da Confindustria sul tema della legalità, aveva ricordato come la sola mafia calabrese abbia un fatturato di 45 miliardi di euro, poco meno del 3% del Pil nazionale. «La 'ndrangheta è uno straordinario potere economico che investe, fa innovazione, condiziona i mercati». Ed è proprio qui la questione che dovrebbe allarmare tutti. In particolare il sistema economico e il mondo della politica. Perché le mafie sono davvero una questione nazionale. Che si risolve non solo in Campania, Puglia, Calabria e Sicilia. Se Michele Zagaria, il superlatitante del clan del Casalesi, ricercato da 13 anni, deve investire i proventi del traffico di droga, del racket, delle ecomafie, non lo fa di certo nella natìa Casapesenna, ma, come hanno dimostrato inchieste e arresti, nella ricca e fiorente Parma. E il giovane Antonio Piromalli, rampante e colto boss della famiglia della Piana di Gioia Tauro, dove porta il suoi solidi e i suoi affari? Nell'ortomercato di Milano. Per non parlare di alcuni grandi centri commerciali in provincia di Latina e Roma. O degli affari sui rifiuti in Toscana. Tutti targati "mafie & c.". Storie recenti? Tutt'altro. Forse si è troppo presto dimenticato che nel 1995 venne addirittura sciolto per infiltrazione mafiosa il consiglio comunale di Bardonecchia, comune montano del Torinese. E nella stessa zona non mancano beni confiscati a cosa nostra e 'ndrangheta. Così come in molte altre regioni del centro-nord. Quando all'inizio degli anni '90 scoppiò la "Duomo connection", quando bravi e coraggiosi magistrati (con la collaborazione di Falcone e Borsellino) cominciarono a sollevare il pentolone sugli affari delle cosche al Nord, sulle mafie in doppio petto, si gridò allo scandalo. Non poteva, non doveva essere vero. Invece pecunia non olet. I soldi delle "famiglie" per anni hanno ingrassato aziende delle regioni "pulite". E queste ultime hanno goduto dei favori mafiosi, come nella ben nota e scandalosa vicenda dei rifiuti del Nord finiti a buon prezzo nelle compiacenti discariche della Camorra. Ma ora c'è un rischio ulteriore. L'allarme non lo ha lanciato un uomo del Nord ma un imprenditore del Sud, il presidente di Confindustria Catanzaro, Giuseppe Speziale. «In questo momento di crisi di liquidità le aziende corrono il rischio di doversi rivolgere a chi di liquidità abbonda. E i "fondi sovrani" della 'ndrangheta non hanno certo bisogno di alcuna Opa per poi impossessarsi delle imprese». Allarme davvero inquietante. Che rende ancora più urgente una netta scelta di campo: o di qua o di là, o con la mafia o contro di essa. Soprattutto laddove le mafie indossano gli abiti perbene. Non ci possono essere zone grigie, quelle di chi chiude gli occhi, di chi accetta di convivere con l'illegalità, facendo affari apparentemente puliti coi soldi sporchi di sangue o di bianca polvere di cocaina. Si comincia magari col traffico di droga, come la Scu in Trentino. Ma poi l'enorme flusso di denaro che produce viene rapidamente ed efficientemente investito. Mimetizzandosi. Soprattutto se chi deve, non vigila o sottovaluta. O, peggio, nega. Ben vengano, dunque, provvedimenti, come quelli annunciati da Maroni, per aggredire meglio i patrimoni mafiosi. Ma serve anche che il mondo economico faccia davvero pulizia, dal proprio interno, di chi non ha avuto remore nel fare ricchi affari con i boss. Al Sud come al Nord.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: