I musulmani hanno visto il coraggio più grande
mercoledì 3 maggio 2017

Il viaggio in Egitto del Papa e l’abbraccio ad al-Azhar «Prima d’oggi rinnegavo il mio amico / se la sua religione non s’accordava alla mia / Ora, il mio cuore accetta ogni forma / è pascolo per le gazzelle, convento per i monaci / tempio per gli idoli, Ka`ba per il pellegrino / tavole della Torà e libro del Corano / Io seguo la religione dell’amore ovunque mi conducano i suoi cammelli / L’amore è la mia religione e la mia fede». Sebbene la realtà dei musulmani, oggi, abbondi di violenza che sgorga da cuori privi di amore e di fede, non esiste città islamica in cui essi non fremano dalla commozione al ritmo di questi versi del sommo maestro Ibn Arabi (1164-1240).

Cantiamo all’amore come a un lontano ricordo, una desiderata speranza, una cosa preziosa ereditata e poi smarrita. Mentre Ibn Arabi scriveva questi versi in Andalusia, in Egitto un giovane frate, di ritorno dall’accampamento nemico, affondava i piedi nel limo lasciato dalla piena del Nilo, l’anima rapita dal ringraziamento a Dio: al contrario di quanto tutti si aspettavano, il sultano Kamil al-Malik non l’aveva sgozzato. L’aveva ascoltato, era stato generoso con lui, aveva promesso di non chiudere le porte alla testimonianza di fede nel suo regno. Il Sultano era stato colpito dal coraggio del frate che aveva messo a repentaglio la propria vita per la sua salvezza. E il Sultano era stato coraggioso, non per aver sconfitto e respinto i crociati, bensì per aver creduto che quel giovane uomo di Dio, giunto con l’esercito nemico, lo amasse davvero e fosse pronto al martirio per amor suo. Non c’è coraggio più grande del credere che qualcuno ci ami.

A questo coraggio Ibn Arabi dà il nome di fede. Prima della visita del Papa al Cairo, l’immagine più diffusa, in Egitto e in Italia, era quella del pontefice sovrastato da una colomba della pace con le ali spiegate e le piramidi sullo sfondo. Immagine che, dopo la visita papale, è stata sostituita da quella di san Francesco che abbraccia il Sultano e, sotto, la foto del Papa che abbraccia lo Sheykh di al-Azhar. L’intesa espressa da quell’abbraccio, l’accordo storico sul battesimo che avvia la fine della divisione fra la Chiesa cattolica e quella copta, la celebrazione della più grande messa nella storia dell’Egitto moderno – cui hanno partecipato cattolici e ortodossi e presenziato musulmani, trasmessa in diretta e seguita dall’intero mondo musulmano – ,così come l’invito degli intellettuali egiziani a studiare il discorso del Papa nelle scuole, sono tutti grandi risultati.

Tuttavia, non sono nulla di fronte al cambiamento di coscienza testimoniato dal passaggio dalla prima alla seconda immagine. I simboli astratti della prima immagine – l’abito papale, la colomba e le piramidi – si sono trasformati, nella seconda immagine, nell’abbraccio di due persone, espressione d’amore. Un amore che non occupa solo lo spazio dell’immagine, ma anche il tempo. La storia è divenuta presente, san Francesco e il Sultano sono tornati ad agire nella coscienza collettiva.

San Francesco che, al tempo delle crociate, nella sua Prima Regola, invitò alla convivenza con i musulmani e alla testimonianza del Vangelo attraverso una vita condivisa; e il Sultano che, nonostante la sua vittoria, rinunciò alla Terra Santa e aprì un corridoio per i pellegrini cristiani. L’eredità del loro incontro non è più perduta. Ce ne siamo riappropriati – come dice Goethe – dopo averla riguadagnata con questa visita. Oggi, l’amore per l’Altro che Ibn Arabi smise di rinnegare non è più soltanto canto, è divenuto esperienza vissuta, conoscenza che non può essere definita da simboli, ma solo dalla presenza con la quale il canto diventa preghiera. Che sia così.

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